C’era
una volta… No, non si tratta dell’incipit di una favola per
bimbi… Quello che qui si racconta non è una fantasiosa fiaba a
lieto fine e nemmeno una antica leggenda ambientata ai piedi del
Castello di San Michele… qui si racconta di eventi davvero
accaduti... in particolare qui si racconta di come si sia intervenuti
trasfigurando un sito da me (e non solo) assai amato. Si parla quindi
di veri accadimenti, si parla di fatti concreti... di come ciò
che c’era una volta sia stato, via via, in pochissimo tempo
mutato nella sua destinazione d’uso, decisamente alterato nella sua
sembianza.
La
località di cui si racconta è quella della “Bacheta” ,
un’ampia striscia di terreno che si allunga dalla periferia di
Ossana quasi a picco sul torrente Vermigliana, in alto sopra
l’abitato di Fucine. Fino ad alcuni anni fa questo sito era
attraversato per la sua intera lunghezza da una stretta stradina, il
“sentiero del Sant” (così io l’ho sempre chiamata), una
stradina che ora è stato allargata e ben asfaltata ricavandone il
tratto iniziale della pista ciclabile che sale a Vermiglio (e che in futuro dovrebbe raggiungere il Passo del Tonale)
La
“Bacheta” era una località in via di naturale
imboschimento, di naturalizzazione spontanea... Ricordo che la zona a
cavallo dei decenni 50’- 60’ del secolo scorso, era ancora in
piccola parte coltivata. Qualche raro campo di patate ma soprattutto
dei ripidi lembi di prato falciabile, il tutto nell’ambito di
un’economia rurale di sola sussistenza giunta ormai agli sgoccioli.
Con il sopraggiungere del benessere il sito è stato
totalmente abbandonato e a poco a poco si è inselvatichito… Sono
attecchiti in grande numero i noccioli ma anche i pioppi tremuli,
qualche acero, qualche betulla, ontano e sorbo degli uccellatori...
e al limitare del bosco, qualche larice e numerosi abeti rossi;
alcune conifere già presenti si sono fatte imponenti, davvero
maestose... Percorrere i vari tratti della stretta stradina del
Sant, inizialmente
nell’ombra oscura delle
conifere, più avanti
nella luce radente del sole al tramonto sprofondati in un tunnel di
fronde luccicanti (dove a fine estate scoiattoli e ghiandaie erano di
casa), era diventato, fino a pochissimi anni fa, un salutare e
coinvolgente svago per i valligiani e soprattutto per molti turisti…
ora purtroppo non lo è più, almeno non lo è come lo era allora...
..ma
ora non c’è più.
Si
è fatta pulizia. Tecnici ed operai del Servizio forestale
della Provincia, ben forniti di motoseghe, trattori, autocarri e
macchine operatrici di diversa tipologia e potenza, hanno lavorato
alacremente per più mesi durante due successive stagioni estive per
abbattere la boscaglia ripulendo totalmente l’intera zona da alberi
d’alto fusto, dal ceduo e dai cespugli, quelli che furono prati,
pascoli e campi coltivati e che abbandonati durante gli ultimi
decenni si erano fittamente rimboschiti. Hanno eliminato le ceppaie e
le radici ma anche massi e macigni, hanno spianato e livellato il
terreno, allargato stradine e i sentieri, restaurato e ricostruito
alcuni muretti a secco e infine seminato il tutto a prato…
Un’impresa non da poco e sicuramente anche parecchio costosa.
Quindi,
come in altre zone della valle, anche a Ossana, nei pressi del
castello di S. Michele, si è voluto ripristinare quell’antico
paesaggio rurale che il progresso aveva annullato. Una
modernità che si era ben poco interessata all’agricoltura
di montagna, all’incentivazione di una innovativa alpicoltura,
rivolta com’era (e come è), all’incentivazione di un’economia
e quindi di attività imprenditoriali legate, quasi esclusivamente,
al turismo, ad un turismo in buona parte povero, un turismo di massa
legato alle tendenze del momento.
Ma
ne è valsa la pena?
Se
è vero che il taglio del bosco ha dischiuso il panorama sulla valle
di Peio, sulle sue alte cime che la coronano, e soprattutto sul bel
castello di Ossana prima completamente celato dalla vegetazione
(permettendomi tra l’altro di fotografarlo da punti di vista finora
impossibili), è pure vero che se prima della drastica deforestazione
il camminare sul viottolo del Sant era decisamente
gradevole, era una piacevole passeggiata nell’ombra del bosco, con
il ripristino del paesaggio rurale la situazione è
decisamente cambiata. Dalla primavera all’autunno si avanzava sotto
il sole cocente tra terre artificialmente inerbite, prive d’alberi,
di bosco e di sottobosco, di un sia pur minimo interesse
naturalistico.
Ma
poi per quale ragione abbattere un bosco? Un bosco distante dalle
case e che quindi non dava alcun fastidio? Per recuperare alla
coltivazione delle superfici produttive abbandonate da decenni? Ma
quali superfici produttive… solo prati magri e ripidi pascoli di
limitata estensione. Per movimentare un panorama fattosi troppo
uniforme con l’espansione della boscaglia? Non direi proprio visto
il risultato (apertura del panorama sul castello esclusa). Solo per questi motivi si è distrutta una piccola
foresta in formazione, un seppure minuscolo polmone verde in grado
comunque di incamerare CO2 seppur in una infinitesima proporzione?
Se l’apporto di quel bosco alla mitigazione del cambiamento
climatico era sostanzialmente nullo non lo era comunque sul piano
simbolico (o se vogliamo... educativo). Non è certamente un
bell’esempio da mostrare ai bimbi che partecipano alla festa degli
alberi e che vengono educati al rispetto per la natura e resi
consapevoli rispetto all’importanza del bosco nella lotta al
riscaldamento globale. A distruggere i boschi già ci pensano le
tempeste di vento e la pullulazione del bostrico (figlie del clima che muta per cause antropiche)…
non è il caso di aggiungervi altre distruzioni soprattutto se ben
poco motivate. Di fronte a questo intervento non si può quindi che
rimanere perplessi, disorientati come lo è stata buona parte della
popolazione (locale e non) che non ha compreso le ragioni di
un’operazione molto costosa e per molti versi ambientalmente e pure
paesaggisticamente ben poco giustificabile.
Invece
ora c’è...
Ma
non finisce qui. Oltre ad aver fatto pulizia, ad aver
ripristinato l’antico paesaggio rurale, il viottolo della
“Bacheta” è stato convertito in pista ciclopedonale, o meglio,
sostanzialmente, in pista ciclabile al servizio di un turismo sempre
più intraprendente nel profittare e soprattutto promuovere le mode,
le tendenze del momento. L’attesa e ben predisposta ciliegina su di una
torta già ben servita...
Un
lungo e lento lavorio ha, a poco a poco, trasformato una antica
mulattiera in un’ampia strada, protetta a monte e sostenuta a valle
da muri a secco ma anche in calcestruzzo armato (artificiosamente
mascherato da pietre a mo’ di muro a secco). Un lavorio che si è
da poco sostanzialmente concluso con l’asfaltatura dell’intero
tracciato, con la posa di uno spesso strato bituminoso che si estende
ben oltre il “sentiero del Sant” raggiungendo i laghetti
di San Leonardo di Vermiglio. Ora manca solo il fiore
all’occhiello a cui comunque si sta già lavorando: mancano le
staccionate a protezione dei ciclisti nei punti più esposti e manca
il dovuto ultimo tocco di colore: manca la segnaletica
stradale orizzontale con i suoi contrasti cromatici, manca il bianco
e il giallo delle sue linee e dei suoi geroglifici tracciati sul nero
del manto stradale. Manca quest’ultimo tocco per completare
definitivamente la decorazione dell’alpestre paesaggio.
Questo
è ciò che ora c’è in località “Bacheta”.
Un serpenteggiante nastro nero, bollente in estate, inquietante,
inquinante e costoso, su cui si cammina male e che, e questo è ciò
che più pesa, non contribuisce sicuramente con il suo innaturale
“cittadino” apporto a migliorare il paesaggio montano ed in
particolare ad abbellire il panorama che è stato da poco aperto sul
Castello di San Michele.
Che dire?
A
questo punto mi chiedo (e chiedo pure a chi mi legge) se quel nero
manto di asfalto fosse davvero indispensabile: non ci si poteva
limitare ad aprire una pista per amanti della bici, più stretta, meno
impattante, più adatta ad un contesto montano, e soprattutto non
asfaltata, con un piano stradale sterrato, ben compatto, stabilizzato
e durevole negli anni?
Vedi
in “Google Foto” cosa c’è ora