Il monte Vioz denudato

 


Proprio così. Durante gli ultimi decenni il Vioz si è a poco a poco spogliato. Si è quasi totalmente denudato. A nascondere una esigua porzione della sua pelle rocciosa ora (agosto 2023) rimane solo uno striminzito slip grigiastro, posizionato in alto, appena sotto il pianoro che unisce la sua cima a punta Linke.


Proprio così. Quell'elegante, candido completo da tennista d’altri tempi che il monte Vioz indossava regolarmente tutte le stagioni estive durante gli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso è solo un lontano ricordo. Sono stati sufficienti pochi decenni per esaurire l’intera scorta delle bianche uniformi adatte a vestire la sua possente corporatura.

In origine le uniformi indossate dal Vioz erano molto grandi, ma con il passare degli anni quelle ampie divise si sono logorate. Non trovandone altre la nostra montagna è stata costretta a sostituirle con divise di taglia inferiore, sempre più piccole, finché ultimamente tutti i modelli idonei a ricoprirla più o meno completamente si sono fatti irreperibili e la montagna è rimasta... in mutande. All’inizio portava dei bei mutandoni XXL, mutandoni che in pochissimi anni si sono però ristretti alle dimensioni dell’attuale minuscolo slippino.


Esibizionismo? Da escludere. Il monte Vioz, per come lo conosco è un monte austero, serio e molto posato. Sa di essere più attraente se ben coperto, se ben vestito… è ben consapevole di quanto gli doni un bianco abito di neve...



No, non sono sicuramente state le rossastre rocce del monte Vioz a volersi deliberatamente spogliare, a volersi liberare dell'abito, del vestito di neve e di ghiaccio che oltretutto le proteggeva pure dal caldo riflettendo i raggi del sole e isolando termicamente il permafrost sottostante.

No, la causa di questo strip-tease va ricercata (e ora siamo finalmente seri) nel rapidissimo aumento della temperatura terrestre che sempre più caratterizza ogni periodo dell'anno, l’estate in particolare. E’ stato quel cambiamento climatico di origine antropica (così ci dice la, complessivamente compatta, comunità scientifica) di cui tutti parlano, di cui tutti conoscono le disastrose conseguenze... quelle siccità, quelle bombe d’acqua, quelle frane ed alluvioni, grandinate, tempeste, altissime temperature ecc. ecc. che vengono regolarmente ed estesamente presentate dai vari media... sistematicamente trascurando però di dissertare sulle responsabilità dell’Homo sapiens e sul “che fare” per attenuare il loro progressivo accentuarsi. Disastrose conseguenze si diceva, di cui ben pochi, ad ogni livello, si assumono in prima persona la responsabilità di incidere sulla loro origine.

Come incidere? Nessun predicozzo da parte mia, ma sarebbe bene che le eventuali negative abitudini venissero modificare, che i propri comportamenti, se deleteri, si ispirassero maggiormente a quella sobrietà tanto invocare anche da papa Francesco e che, soprattutto, venissero ben ponderate anche le proprie azioni nel contesto della vita pubblica comprese le proprie scelte in ambito politico.




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C'era una volta...


 

C’era una volta… No, non si tratta dell’incipit di una favola per bimbi… Quello che qui si racconta non è una fantasiosa fiaba a lieto fine e nemmeno una antica leggenda ambientata ai piedi del Castello di San Michele… qui si racconta di eventi davvero accaduti... in particolare qui si racconta di come si sia intervenuti trasfigurando un sito da me (e non solo) assai amato. Si parla quindi di veri accadimenti, si parla di fatti concreti... di come ciò che c’era una volta sia stato, via via, in pochissimo tempo mutato nella sua destinazione d’uso, decisamente alterato nella sua sembianza.


La località di cui si racconta è quella della “Bacheta” , un’ampia striscia di terreno che si allunga dalla periferia di Ossana quasi a picco sul torrente Vermigliana, in alto sopra l’abitato di Fucine. Fino ad alcuni anni fa questo sito era attraversato per la sua intera lunghezza da una stretta stradina, il “sentiero del Sant” (così io l’ho sempre chiamata), una stradina che ora è stato allargata e ben asfaltata ricavandone il tratto iniziale della pista ciclabile che sale a Vermiglio (e che in futuro dovrebbe raggiungere il Passo del Tonale)

La “Bacheta” era una località in via di naturale imboschimento, di naturalizzazione spontanea... Ricordo che la zona a cavallo dei decenni 50’- 60’ del secolo scorso, era ancora in piccola parte coltivata. Qualche raro campo di patate ma soprattutto dei ripidi lembi di prato falciabile, il tutto nell’ambito di un’economia rurale di sola sussistenza giunta ormai agli sgoccioli. Con il sopraggiungere del benessere il sito è stato totalmente abbandonato e a poco a poco si è inselvatichito… Sono attecchiti in grande numero i noccioli ma anche i pioppi tremuli, qualche acero, qualche betulla, ontano e sorbo degli uccellatori... e al limitare del bosco, qualche larice e numerosi abeti rossi; alcune conifere già presenti si sono fatte imponenti, davvero maestose... Percorrere i vari tratti della stretta stradina del Sant, inizialmente nell’ombra oscura delle conifere, più avanti nella luce radente del sole al tramonto sprofondati in un tunnel di fronde luccicanti (dove a fine estate scoiattoli e ghiandaie erano di casa), era diventato, fino a pochissimi anni fa, un salutare e coinvolgente svago per i valligiani e soprattutto per molti turisti… ora purtroppo non lo è più, almeno non lo è come lo era allora...


..ma ora non c’è più.

Si è fatta pulizia. Tecnici ed operai del Servizio forestale della Provincia, ben forniti di motoseghe, trattori, autocarri e macchine operatrici di diversa tipologia e potenza, hanno lavorato alacremente per più mesi durante due successive stagioni estive per abbattere la boscaglia ripulendo totalmente l’intera zona da alberi d’alto fusto, dal ceduo e dai cespugli, quelli che furono prati, pascoli e campi coltivati e che abbandonati durante gli ultimi decenni si erano fittamente rimboschiti. Hanno eliminato le ceppaie e le radici ma anche massi e macigni, hanno spianato e livellato il terreno, allargato stradine e i sentieri, restaurato e ricostruito alcuni muretti a secco e infine seminato il tutto a prato… Un’impresa non da poco e sicuramente anche parecchio costosa.

Quindi, come in altre zone della valle, anche a Ossana, nei pressi del castello di S. Michele, si è voluto ripristinare quell’antico paesaggio rurale che il progresso aveva annullato. Una modernità che si era ben poco interessata all’agricoltura di montagna, all’incentivazione di una innovativa alpicoltura, rivolta com’era (e come è), all’incentivazione di un’economia e quindi di attività imprenditoriali legate, quasi esclusivamente, al turismo, ad un turismo in buona parte povero, un turismo di massa legato alle tendenze del momento.

Ma ne è valsa la pena?

Se è vero che il taglio del bosco ha dischiuso il panorama sulla valle di Peio, sulle sue alte cime che la coronano, e soprattutto sul bel castello di Ossana prima completamente celato dalla vegetazione (permettendomi tra l’altro di fotografarlo da punti di vista finora impossibili), è pure vero che se prima della drastica deforestazione il camminare sul viottolo del Sant era decisamente gradevole, era una piacevole passeggiata nell’ombra del bosco, con il ripristino del paesaggio rurale la situazione è decisamente cambiata. Dalla primavera all’autunno si avanzava sotto il sole cocente tra terre artificialmente inerbite, prive d’alberi, di bosco e di sottobosco, di un sia pur minimo interesse naturalistico.

Ma poi per quale ragione abbattere un bosco? Un bosco distante dalle case e che quindi non dava alcun fastidio? Per recuperare alla coltivazione delle superfici produttive abbandonate da decenni? Ma quali superfici produttive… solo prati magri e ripidi pascoli di limitata estensione. Per movimentare un panorama fattosi troppo uniforme con l’espansione della boscaglia? Non direi proprio visto il risultato (apertura del panorama sul castello esclusa). Solo per questi motivi si è distrutta una piccola foresta in formazione, un seppure minuscolo polmone verde in grado comunque di incamerare CO2 seppur in una infinitesima proporzione? Se l’apporto di quel bosco alla mitigazione del cambiamento climatico era sostanzialmente nullo non lo era comunque sul piano simbolico (o se vogliamo... educativo). Non è certamente un bell’esempio da mostrare ai bimbi che partecipano alla festa degli alberi e che vengono educati al rispetto per la natura e resi consapevoli rispetto all’importanza del bosco nella lotta al riscaldamento globale. A distruggere i boschi già ci pensano le tempeste di vento e la pullulazione del bostrico (figlie del clima che muta per cause antropiche)… non è il caso di aggiungervi altre distruzioni soprattutto se ben poco motivate. Di fronte a questo intervento non si può quindi che rimanere perplessi, disorientati come lo è stata buona parte della popolazione (locale e non) che non ha compreso le ragioni di un’operazione molto costosa e per molti versi ambientalmente e pure paesaggisticamente ben poco giustificabile.



Invece ora c’è...

Ma non finisce qui. Oltre ad aver fatto pulizia, ad aver ripristinato l’antico paesaggio rurale, il viottolo della “Bacheta” è stato convertito in pista ciclopedonale, o meglio, sostanzialmente, in pista ciclabile al servizio di un turismo sempre più intraprendente nel profittare e soprattutto promuovere le mode, le tendenze del momento. L’attesa e ben predisposta  ciliegina su di una torta già ben servita...

Un lungo e lento lavorio ha, a poco a poco, trasformato una antica mulattiera in un’ampia strada, protetta a monte e sostenuta a valle da muri a secco ma anche in calcestruzzo armato (artificiosamente mascherato da pietre a mo’ di muro a secco). Un lavorio che si è da poco sostanzialmente concluso con l’asfaltatura dell’intero tracciato, con la posa di uno spesso strato bituminoso che si estende ben oltre il “sentiero del Sant” raggiungendo i laghetti di San Leonardo di Vermiglio. Ora manca solo il fiore all’occhiello a cui comunque si sta già lavorando: mancano le staccionate a protezione dei ciclisti nei punti più esposti e manca il dovuto ultimo tocco di colore: manca la segnaletica stradale orizzontale con i suoi contrasti cromatici, manca il bianco e il giallo delle sue linee e dei suoi geroglifici tracciati sul nero del manto stradale. Manca quest’ultimo tocco per completare definitivamente la decorazione dell’alpestre paesaggio.

Questo è ciò che ora c’è in località “Bacheta”. Un serpenteggiante nastro nero, bollente in estate, inquietante, inquinante e costoso, su cui si cammina male e che, e questo è ciò che più pesa, non contribuisce sicuramente con il suo innaturale “cittadino” apporto a migliorare il paesaggio montano ed in particolare ad abbellire il panorama che è stato da poco aperto sul Castello di San Michele




Che dire?

A questo punto mi chiedo (e chiedo pure a chi mi legge) se quel nero manto di asfalto fosse davvero indispensabile: non ci si poteva limitare ad aprire una pista per amanti della bici, più stretta, meno impattante, più adatta ad un contesto montano, e soprattutto non asfaltata, con un piano stradale sterrato, ben compatto, stabilizzato e durevole negli anni?




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