4 passi sulla pista ciclo-pedonale, in Val di Pejo




Mattutina camminata risalendo la ciclabile della Val di Sole, sul suo tratto finale, quello che dal ponte sul fiume Noce, il Ponte del Mulino di Comasine, raggiunge Cogolo di Pejo, dove la pista ha termine. Una passeggiata di un paio di chilometri, forse meno, da moltiplicare per due, tra andata e ritorno, con in più poche centinaia di metri per alcune brevissime deviazioni su alcuni viottoli di campagna, per esplorare i più prossimi dintorni della ciclopedonale.



Superato il ponte sul Noce (ho parcheggiato l'auto nei suoi pressi) affronto subito una breve salita che “taglia” le gambe (nella sua prima parte, più dolce, la salita coincide con la strada provinciale per Comasine) ma poi, fortunatamente, posso proseguire in totale tranquillità, su di un tracciato appena ondulato che scorre agevole tra vasti prati, ancora rigogliosi nonostante la stagione sia ormai avanzata. Sullo sfondo mi accompagna la vista dell'imponente massiccio del Monte Vioz che chiude la Val di Pejo. Ai suoi piedi, sull'erto versante, scorgo il Colle di San Rocco e, nitidissimo, poco sotto, l'antico abitato di Pejo Paese. Alle mie spalle ho la profonda, verdeggiante incisione della parte iniziale della Val di Pejo e in lontananza creste rocciose e cime azzurrine, una cornice appena sfiorata dal sole del mattino, che emerge dalle scure foreste, ancora in ombra, dell'Alta Val di Sole. Sono i monti che sovrastano il paese di Pellizzano e la conca di Ossana da dove si diparte la Val di Pejo. Alla mia sinistra, in alto sull'erto pendio, si eleva, ben riconoscibile tra la fitta vegetazione, il campanile della chiesetta dei minatori, la chiesetta di Santa Lucia.



Proseguo e subito mi attraggono le rustiche sagome di alcuni masi (Masi di Contra?). Sono vecchie costruzioni che raggiungo rapidamente e che mi soffermo ad osservate sia dalla ciclabile sia da una mulattiera che da essa si diparte permettendomi di accostarmi maggiormente. Sono edifici frutto dell'organizzazione economica del passato, basata quasi esclusivamente su di una agricoltura povera, di pura sussistenza o quasi, un'organizzazione che si è stratificata nei secoli adeguandosi alla durezza dell'ambiente montano. Nel fienile di questi masi si immagazzinava il foraggio raccolto nei prati circostanti e con esso si alimentavano i bovini, temporaneamente alloggiati nella stalla sottostante. A scorte esaurite il bestiame veniva trasferito più a valle in altri masi o direttamente nella stalla del paese. Si potevano così sfruttare anche i pendii a prato più lontani limitando il tempo da dedicare al trasporto del fieno e quindi riducendo il lavoro e la conseguente fatica.
Le mutate condizioni economiche hanno fatto venir meno l'originaria funzione di questi edifici che, oggi, servono tutt'al più come depositi di attrezzi vari o magazzini per antichi utensili o altro. Questi masi sembrano quasi in spasmodica attesa... sembrano aspettare solo un radicale intervento che li consolidi, che li ristrutturi, adibendoli ad eleganti alloggi per turisti... secondo i canoni della nuova fiorente economia.
Solo uno di questi masi appare ancora pienamente utilizzato seguendo gli antichi criteri. All'esterno di questo rustica costruzione, in un prato ben racchiuso da una robusta staccionata, pascolano tranquille alcune capre... “Che ci sia ancora qualcuno che non riesce a distaccarsi mentalmente dal tempo che fu? Qualcuno che, attanagliato dalla nostalgia del tempo passato, ha deciso di impegnarsi a perpetuare le antiche pratiche agricole, magari solo come passatempo?” Pratiche agricole e di allevamento che sembrano perdersi nel tempo, marginali attività, ormai abbandonate da tutti o quasi da tutti... considerate distantissime dall'odierno modo di vivere... trascurate da tutti o quasi da tutti...


Procedendo oltre i rustici masi, costantemente in vista delle cime del gruppo Ortles-Cevedale che si stanno coprendo di spesse nubi, posso distintamente osservare, sul versante opposto, l'abitato di Celledizzo nella sue estesa interezza.
Poco più avanti avanti il bosco inizia a prendere il posto dei prati.
Ora bosco e prato si alternano lungo il percorso regalandomi scorci vivacemente colorati.
Nell'ultimo tratto di pista il bosco si fa sempre più più fitto, i gruppi di latifoglie si fanno più numerosi e i colori dorati delle loro chiome in controluce creano una atmosfera magica fatta di contrasti, di luci intense e di ombre profonde.
Ma ormai sono quasi al termine della mia camminata o almeno della sua prima parte, dell'andata. La pista adesso precipita, quasi all'improvviso, verso il fondovalle. Una ripida, breve, discesa e mi trovo in località Le Plaze alla periferia del paese di Cogolo. Il Paese è ora ben visibile e, volendo, subito raggiungibile al di là del ponte sul Noce. Ma per me è giunta l'ora del ritorno... Rientro calpestando la medesima strada....



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La pista ciclabile della Val di Sole parte da Mostizzolo e sale per 35 Km fino a raggiungere Cogolo di Pejo dove termina (o al contrario da Cogolo discende...). Segue il corso del Fiume Noce ricalcando il tracciato di antiche strade poderali, di collegamento o arginali. Il percorso non è particolarmente impegnativo superando complessivamente un dislivello di soli 560 m.
Nel post descrivo solo l'ultimissimo tratto della ciclabile, tratto che ben si presta ad essere percorso anche a piedi perché sostanzialmente pianeggiante e paesaggisticamente attraente. Il tratto che lo precede è molto più ripido e selvaggio salvo farsi più abbordabile e quindi adatto anche alle passeggiate, più a valle, nei pressi del Forno di Novale e così via oltre il Forno fino a Fucine dove la Val di Pejo sbocca nella Val di Sole.
Ma ora un'ultima considerazione o meglio due domande che spesso mi pongo: “Perché in Val di Sole, con una così stupenda pista ciclabile a disposizione, molti amanti della bicicletta si ostinano a pedalare sulle strade statali e provinciali creando situazioni pericolose per loro e per gli altri? Perché alcuni di loro, sempre più numerosi, invadono non solo le strade bianche o forestali di montagna (il che è ancora comprensibile e accettabile) ma pure gli stretti e strapiombanti sentierini di montagna? Perché?” Io non vedo risposte che possano essere minimamente giustificatorie e ragionevoli...





Quando cadono le foglie









Quando nel mio giardino le foglie del nocciolo, della betulla, del poppo tremulo, del sorbo, del ciliegio selvatico e dell'acero perdono la loro estiva freschezza ed iniziano lentamente ad ingiallire mi si stringe il cuore... Quando poi, al levarsi di un alito di vento le foglie si staccano dalle chiome dorate e volteggiando lievi si posano al suolo, un velo di malinconia mi avvolge... definitivamente.






E' la lieve mestizia che mi prende ogni anno all'appassire della bella stagione. E' un tenue sconforto che accolgo comunque con serenità quasi fosse una amico ritrovato, un compagno con cui intrattenersi, con cui chiacchierare a lungo, rivelandogli ogni più segreto pensiero.





Le mie sono tristi rivelazioni, frutto di meste riflessioni, sono meditazioni e considerazioni tipicamente ottobrine, quando l'approssimarsi della stagione morta non può che invitare al raccoglimento, costringere alla concretezza, indurre a ridimensionare progetti e sogni, soprattutto ora che le speranze di vita si stanno inesorabilmente assottigliando e che il declino si fa sempre più vicino.




Le giornate sempre più corte evocano la fugacità degli avvenimenti terreni, il tardo albeggiare ma soprattutto l'imbrunire sempre più precoce rammentano l'inevitabile oscurarsi delle proprie aspettative. Con il sopraggiungere dell'autunno si vanno a poco a poco perdendo l'ottimismo e tutte quelle sicurezze che il sole, l'intensa luce estiva ci avevano illusoriamente donato a piene mani... ora ci si sente molto più piccoli, più fragili e umili, ma anche più consapevoli...






Queste sono le percezioni che accompagnano il mio procedere sul manto di foglie fruscianti del mio giardino, questi sono i pensieri che l'autunno mi suggerisce durante il pigro girovagare nel bosco, sui vicini sentieri tappezzati di scampoli dai mille colori.




Veleggio in un mare di foglie... cammino sulle foglie, sulle foglie cadute da tempo, brune e secche che nel silenzio scoppiettano spezzandosi sotto le suole... e cammino sulle foglie appena cadute, su di una distesa variopinta, una coltre luminosa e sfarzosa fatta di scaglie verdi, gialle, arancio, rosse.... avanzo nella pioggia, una pioggia di foglie che cadono, che scendono ondeggiando, che si posano leggere sul terreno... in una sinfonia continua, una musica ovattata.




In ogni foglia che si stacca alberga la memoria delle lunghe giornate estive, in ognuna l'ultimo respiro della bella stagione... in ognuna tutta la mia nostalgia. Nostalgia e tanta malinconia ma anche il dolce piacere di osservare, di ammirare, di passeggiare su di un letto sontuoso, un letto di lamine sottili, fruscianti o croccanti, un letto stupendo, un letto pennellato di mille vivaci colori appena velati da rare, preziose sfumature.



Un'esplosione di bellezza che non puoi non contemplare, che inevitabilmente ti coinvolge, ti distrae, ti distoglie dal triste rimuginare. Così per qualche istante l'autunno di potrà sembrare una rinnovata primavera, con le foglie trasfigurate in fiori di maggio, fiori dall'inteso vivacissimo colore.... Un'esplosione di splendore, un gran finale, quasi che la natura prima del buio invernale, volesse rievocare... volesse rivivere per qualche giorno i fasti primaverili con una nuova estemporanea, coloratissima fioritura... che ti scalda il cuore.





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Nel Parco dello Stelvio: da Malga Giumela a Pian della Vegaia e alla Cascata Cadini


Sui monti di Pejo, tra passato e presente.



Lunga camminata sulle strade sterrate del versante sinistro della Val del Monte, interessante escursione alla scoperta di alcuni siti alpestri, siti multiformi, che furono e ancora sono, variamente sfruttati dall'uomo, dall'uomo che popola permanentemente la zona, ma anche, indirittamente, dall'uomo che risiede in altre località, più o meno molto lontane.



Al Fontanino di Pejo, raggiungibile in auto, si imbocca la strada bianca, preclusa al traffico veicolare, che (in meno di mezz'ora) porta sulle sponde del bacino artificiale di Pian Palù. Quassù uno spesso sbarramento, realizzato durante gli anni '50 del secolo scorso, trattiene le acque del torrente Noce, creando, alle sue spalle, una vasta superficie liquida dall'intenso colore verde smeraldo: un lago, che un tempo non esisteva. Una nuova risorsa... un lago paesaggisticamente molto attraente e quindi anche turisticamente attrattivo, ma soprattutto una fonte di energia pulita, di energia rinnovabile a disposizione di tutti anche di coloro che abitano nelle città di pianura.






A monte del lago un'ampia stradina risale degli erti pascoli. Seguendola si arriva (in una mezz'oretta) ai due edifici che compongono Malga Giumela: un rustico stallone e l'abitazione dei pastori recentemente ristrutturata.





Nonostante l'autunno sia alle porte la malga, grazie alla sua favorevole esposizione, è ancora aperta, è ancora monticata. Lo annuncia, sulla porta della casera, il furioso abbaiare di un cane pastore subito zittito dal suo padrone. Ma dove sono le mucche? Sono scomparse...le mucche non si vedono proprio... ma ecco... ecco le loro tracce, fresche e ben disseminate...






Si dirigono sulla destra, verso il Prà di Palù a valle dei pendii della Val dei Orsi... Seguiamole... Una decina di minuti di strada sterrata nel bosco seguendo il percorso della mandria e... quasi all'improvviso, si apre un panorama del tutto nuovo, una vista del tutto diversa.






E' l'ampio bacino della Valle degli Orsi delimitato da un lato dai versanti che salgono verso la Cima Frattasecca e dall'altro lato dai picchi rocciosi delle Mandriole. Al centro, verso la sommità, le rupi che sconfinano con la Punta Cadini e le, solo intuibili, cime della Giumela e del San Matteo.






Ed ecco le mucche di Malga Giumela, sono davvero numerose... Brucano in piedi o ruminano tranquillamente distese al sole, sui prati ancora vedi, che si aprono alla base dei ripidi pendii della valle .



L'alpeggio delle mucche! Una pratica estiva che da secoli consente un utilizzo complessivamente sostenibile della montagna... Si sfrutta l'erba profumata cresciuta spontaneamente nelle praterie in quota, in quei territori marginali dove accanto agli animali selvatici possono benissimo trovare la loro collocazione anche i bovini, gli ovini e i caprini degli allevatori locali. La monticazione è una pratica che, in alcune zone, sta conoscendo una rinnovato impulso anche nell'ottica di un vantaggioso raccordo con l'escursionismo, con il turismo ambientale e, perché no, pure con il turismo gastronomico.






Lasciato il Prà di Palù si attraversa il Rio Vegaia su di un ponte di recente ma alquanto impattante fattura e si inizia la discesa nel bosco; una breve camminata che conduce al Pian della Vegaia.






Dieci, quindici minuti e ci si ritrova in quella che, durante la grande guerra, fu una “cittadella militare”, un insieme di magazzini, infermerie, forni, macellerie... e baracche che arrivarono ad ospitare fino a seicento tra soldati e ufficiali.





Oggi si presenta come un terrazzo panoramico, in prato alberato, caratterizzato dai resti delle trincee che furono scavate a difesa del sito. Più in basso, lungo un ripido costone (Stoi de la Vegaia), si rinvengono pure delle gallerie e dei bunker che, al tempo, funsero da deposito di armi e munizioni.




A Pian della Vegaia doveva essere realizzato un forte, Forte Montozzo, che in coppia con ForteBarbadifior, posto su di uno sperone roccioso che emerge dal fondovalle, avrebbe dovuto contrapporsi ad una eventuale invasione dei “regnicoli”. Quel forte non fu mai realizzato ma la zona fu comunque fortificata divenendo il principale supporto logistico austroungarico del fronte della Val di Pejo. Uno “strategico” guerresco utilizzo della zona... che si spera non si ripeta mai più.





Oggi questa località richiama numerosi visitatori che, spesso accompagnati da una guida, percorrono il “Sentiero della Grande Guarra” predisposto alcuni anni fa dalle maestranze del Parco dello Stelvio e Pian Della Vegaia con Forte Bardafior sono senza dubbio i siti di maggior interesse storico ma anche paesaggistico del percorso.



Ma ora conviene proseguire lungo la strada militare della Vegaia che lentamente si dirige verso il fondovalle, verso Malga Termenago Bassa (oggi ristorante Malga Frattasecca) e immediatamente dopo verso la strada asfaltata per il Fontanino di Pejo. Ne vale la pena anche perché non si può fare a meno di ammirare quest'opera viaria di alta montagna che dopo più di cent'anni resiste imperterrita all'usura del tempo... una concreta dimostrazione delle abilità progettuali e costruttive dell'esercito austro-ungarico...






Raggiunto il primo tornante (una mezz'oretta di cammino in discesa) si imbocca il sentiero che porta al Laghetto di Còvel e subito si raggiunge una cascata: è la Cascata Cadini.




Sorprendentemente il sentiero attraversa il salto roccioso della cascata a metà altezza... Sì, proprio a metà altezza perché le acque che copiose precipitano fragorosamente dall'alto vengono intercettate a metà corsa da una robusta opera di captazione che le convoglia nella lunghissima galleria che partendo dalla diga del Palù raggiunge la località Gaggio, a monte di Pejo Paese... e dal Gaggio le acque precipitano nella condotta forzata della centrale idroelettrica di Pònt a Cogolo.




Cascata “dimezzata” quindi ma comunque ancora spettacolare, soprattutto se ammirata dalla piattaforma panoramica recentemente realizzata, dalle maestranze del Parco, poco a monte del nostro sentiero, (una piattaforma agibile però solo d'estate).
Cascata “dimezzata” si diceva, un ulteriore esempio di utilizzo delle risorse della montagna da parte dell'uomo... un utilizzo da ben ponderare in tutte le sue implicazioni, economiche ma soprattutto ambientali, positive o negative che siano...



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Quando “el Nos l'é rabios”...

Quando il Noce è arrabbiato...



Quando il fiume Noce, i suoi affluenti principali, i torrenti Vermigliana, Meledrio Rabbies, e i numerosi rii che vi si riversano precipitando dai ripidi fianchi dei monti, si gonfiano oltremisura, per le piogge persistenti o per degli improvvisi e tempestosi temporali, per la nostra zona sono guai seri. E lo sono soprattutto quando i versanti, in particolare il morenico e instabile versante destro della valle, iniziano a franare, scavando profonde incisioni e riversando a valle enormi quantità di materiale, limo, sabbia e massi do ogni dimensione.... E i “guai” ci sono stati anche pochi giorni fa. Un nuovo disastroso evento si è infatti verificato, mi vien da dire per l'ennesima volta, nella Media Valle, a Dimaro, dove il Rio Rotian ha trascinato in paese i detriti franati nella parte alta del suo alveo provocando morte (una vittima), terrore, panico e angoscia ed ingentissimi danni materiali.




Ho scritto “per l'ennesima volta” perché nel corso dei secoli e dei decenni sono stati moltissimi gli accadimenti analoghi che hanno funestato il quieto vivere di questa operosa valle di montagna. Frugando qua e là tra i volumi e i volumetti della mia libreria ha rinvenuto alcuni scritti che riportano le date dei più disastrosi eventi alluvionali che colpirono la Val di Sole e in particolare l'Alta Valle, specificatamente la conca di Ossana con la sua frazione di Fucine.



Scrive Quirino Bezzi nel suo libretto “La Valle di Sole” (Ed. Artigianelli 1959) riferendosi alla zona di Fucine: “...Le vecchie case un tempo sorgevano sulla destra del torrente, ma questo, aiutato dalle frane della val Cavagna e della val Foresta scendenti dai piani della Selva di Barco, più volte le asportò, spesso cambiando di letto così come nel 1425 ((?)Nelle locali pergamene Fucine viene citato per la prima volta solo nel 1463 come “Villa Nova Fucinarum”), nel 1772, nel 1789, nel 1796 e nel 1846 quando l'impeto delle onde demolì la chiesa di S. Carlo, poi ricostruita nel centro del villaggio......”



Anche Giovanni Ciccolini nel suo prezioso volume “Ossana nelle sue memorie” (Tip. Ed. Solandra 1943 – riedizione del 1992 a cura del Centro Studi per la Val di Sole) cita le date delle più gravi inondazioni che funestarono la zona in questione: “Le nostre carte ricordano alcune inondazioni nell'Alta Valle, come quelle del 1578, 1665, 1757, 1772, 1778 (?), quella tremenda del 1789, causa la quale la nostra pieve ebbe in abbuono di fiorini 445,36 sull'imposta provinciale e l'ultima non meno disastrosa del 1850. (Il Brentari ricorda anche quelle del 1796 e del 15 agosto del 1846....”


Altro non ho trovato se non negli scritti di mio nonno (morto nel lontano 1966) raccolti in un tomo, per “solo uso familiare”, dal titolo “Memorie”. Il nonno nel capitolo “Alluvioni di Fucine ed Ossana” scrive: “….spiace che nessuno abbia lasciato memoria delle antiche alluvioni che danneggiarono e addirittura travolsero le poche case di cui il villaggio era costituito. Ho rinvenuto in un vecchio manuale, l'annotazione che qui riporto integralmente: <<negli anni 1772, 1778 e 1798 la furia distrusse quasi tutta la Villa (Fucine), lasciando intatta la chiesa ma ai quindici agosto 1846 travolse anche questa e l'inondazione del 1868 condusse parte delle sue rovine...>> Questo è tutto: per altre notizie non mi resta che rimettermi alla tradizione......”

l nonno prosegue ricordando l'alluvione del 1882 e quella del 1886 che rammenta lucidamente (aveva allora otto anni) e racconta in una coinvolgente narrazione che ho ritenuto di riportare quasi per intero più sotto.... aggiungendovi i miei ricordi che, molto più recenti, risalgono alle alluvioni del 1960 e del 1966 e ad altri eventi di minore impatto.
Come si è visto eventi alluvionali più o meno disastrosi funestano da sempre la valle così come funestano molti altri territori per non dire l'intera superficie terrestre. Sono accadimenti inevitabili... i monti sono inesorabilmente destinati ad appiattirsi, a poco a poco, nel corso dei tempi, tempi lunghissimi. Le opere di sistemazione idraulica e forestale possono solo rallentare e contenere il processo cercando di salvaguardare il più possibile gli insediamenti umani.


Va riconosciuto che, da noi, gli interventi a salvaguardia dei centri abitati, delle vie di comunicazione, delle campagne non sono mancati e che molto si è fatto non solo in questi ultimi anni... non mancano di certo i muri di sponda, le arginature, le briglie, anche filtranti, i bacini di espansione e di deposito... le opere di consolidamento delle frane, i paravalanghe... ma evidentemente questo non basta. Non è possibile evitare che si verifichino comunque degli accadimenti calamitosi soprattutto di fronte al mutare delle condizioni climatiche, al cospetto di un cambiamento climatico che drammatizza lo scenario accentuando la frequenza e l'intensità degli eventi meteorologici estremi.

E' sotto gli occhi di tutti che la pioggia non scende più come un tempo quando solitamente le alluvioni venivano causate da piogge persistenti, non intensissime ma che non cessavano mai gonfiando rivi, torrenti e fiumi a poco a poco. Oggi i tempi si sono ridotti, piove a dirotto e le precipitazioni (le cosidette “bombe d'acqua”) sono spesso accompagnata da bufere di vento che spianano i boschi, tempeste (che qualcuno definisce tropicali) che mettono in crisi soprattutto i piccoli bacini idrografici gonfiando a dismisura rigagnoli e torrentelli provocando erosioni, frane per crollo e smottamenti. C'è molta più energia nell'atmosfera, energia che si scarica sulla terra producendo fortunali finora sconosciuti. C'è più calore e i ghiacciai si ritirano, scompaiono, il permafrost si squaglia e i vasti territori d'alta montagna diventano instabili, fragili...


Come affrontare la situazione? Non spetta certo a me stabilirlo elargendo ricette risolutive che, comunque, credo non esistano proprio. Rifletto, penso ed espongo il mio pensiero. Penso e auspico che si faccia molto di più a livello mondiale per contenere il cambiamento climatico, per limitare il riscaldamento globale evitando drasticamente l'immissione in atmosfera di ulteriori quantitativi di gas serra; penso e auspico che accanto alle istituzioni anche le singole persona si impegnino a fondo, che riflettano sulle loro abitudini consolidate cambiando, eventualmente, il loro stile di vita, anche nelle piccole cose di ogni giorno, rendendosi meno dipendenti dal consumismo imperante ed estremamente deleterio per l'ambiente.
Penso poi che si dovrebbe porre la massima attenzione prima di urbanizzare zone che un tempo, magari lontano, furono interessate da frane, alluvioni, valanghe... Gli eventi alluvionali tendono a ripetersi e prima o poi investiranno nuovamente le aree che già colpirono in passato.... Penso che siano da evitare gli insediamenti turistici in quota, i disboscamenti per piste da sci, impianti a fune, ecc. realizzati in zone geologicamente fragili... Penso che i nostri boschi vadano progressivamente trasformati, da boschi quasi esclusivamente di produzione a boschi più orientati alla protezione, da formazioni troppo spesso coetanee e pure (l'abete rosso! Così redditizio ma debole al vento!), a formazioni disetanee e miste. Che i nostri boschi, così antropizzati, vadano avvicinati alla conformazione delle foreste primigenie, le foreste naturali (andando ben oltre l'attuale pratica applicazione della “selvicoltura naturalistica”), molto più resistenti alle tempeste e con un suolo fertile e soffice in grado di assorbire e trattenere enormi quantitativi d'acqua.
Questo e altro ancora penso ma nulla suggerisco...


Dalle “Memorie” del nonno.

E' noto come Fucine, che sorge sugli antichi alvei dell'impetuoso torrente Vermigliana, in passato fosse più volte vittima del torrente stesso e come a tutt'oggi le persistenti piogge, che causano l'ingrossamento delle sue acque, costituiscano preoccupazione per gli abitanti del paese......
...la chiesetta dedicata a S.Carlo fu travolta dall'alluvione...... a questo proposito, si raccontava dagli anziani del paese, che la statua del santo era stata vista galleggiare ritta in piedi, per lungo tratto, sopra le furiose acque. Ciò appare ben poco credibile, ameno ché il patrono, prima di affogare, non avesse voluto salutare e per l'ultima volta, il paese che lo aveva un giorno così bene accolto.
Un'altra inondazione avvenne nel settembre-ottobre 1882 e cagionò danni alla campagna. A questa ne seguì un'altra nel 1885, della quale sono in grado di dare dettagliati particolari, essendo io allora in età di otto anni: quella drammatica notte è rimasta assai impressa nella mia memoria.
Da giorni la pioggia cadeva persistente; pioveva, pioveva e nessun indizio faceva sperare in un miglioramento. La gente cominciava a d allarmarsi soprattutto perché dalle due valli, Foresta e Cavagna, franava , di tanto in tanto, con impressionante fragore, terriccio e pietrame ma soprattutto massi di granito tondeggianti che sdrucciolando nel letto del torrente andavano formando un ingorgo con conseguente pericolo di fuoriuscita delle acque dall'alveo. Il torrente si ingrossa di ora in ora e il suo fragore per le acque dense, pesanti di fanghiglia e massi che trascina, è tale da mettere una buona dose di paura ad ogni persona. Il ciglio del torrente, costituito in parte da grosse, pesanti travature in legno connesse tra loro, chiamate comunemente “zattere”, minaccia di venir travolto.... la gente, sempre più allarmata, dà mano alle cose più necessarie, materassi, coperte, biancheria, vestiario e le trasporta al sicuro in casa Zanella che nella circostanza era diventata un generale asilo. Mi pare ancora da vedere quella povera gente accasciata dall'incubo e sotto il peso di pesanti casse o mentre sospinge carretti con voluminosi carichi, correre qua e là in preda al panico, nello sforzo di salvare il salvabile. E sono trascorsi ormai sessant'anni!
L'acqua cade a rovesci; il materiale che frana dalle due valli, con un rombo cupo e persistente fa vibrare le case, ingombra il torrente e dietro viene a formarsi un lago pesante. Gli uomini posti a guardia del torrente , vedendo che la diga formata dai detriti della montagna sta per essere travolta dalla spinta delle acque, corrono verso il paese invitando tutti a mettersi in salvo. L'allarme provoca ulteriore panico e confusione in un andirivieni, nel buio della notte, di uomini, donne, bambini, vecchi malaticci che si trascinano a stento sorretti da qualche famigliare, mamme con i piccoli in braccio invocanti Dio e la Vergine; ….. tutti cercano riparo chi in casa Oliva ma la maggior parte in casa Zanella che presenta migliore sicurezza. Gli animali erano stati condotti a Ossana ancora nel giorno precedente,tranne i cavalli dell'impresa Zorzi, rimasti nella stalla fino all'ultimo allarme quando vengono condotti nell'ampia cantina di casa Oliva. Verso mezzanotte, quando l'acqua, che già aveva invaso parte del paese, inizia a penetrare nello scantinato e tende a salire sempre più, i poveri cavalli vengono costretti, non senza difficoltà, a salire due scale per poter poi uscire sulla strada erariale......
L'oscurità è tale che non si scorge un palmo avanti il naso; continua a piovere dirottamente; Il cupo rombo proveniente dalle due valli si accentua sempre più..... Qualcuno ormai cede alla tensione nervosa e a stento si riesce a calmarlo. Si chiudono porte e scuri per sentire meno quel tonneggiare delle valli che franano.... Fu una nottataccia d'inferno più facile da immaginare che da descrivere.
Le guardie non stavano inoperose: con grandi lampade a petrolio percorrevano la strada principale fiancheggiante il torrente per dare eventuali nuovi allarmi e appena oltre il paese, difronte alla val Cavagna, avevano acceso un grande fuoco per rischiarare la zona e controllare l'eventuale formazione di una nuova diga che avrebbe potuto causare lo straripamento del torrente sulla strada e porre in pericolo anche le due case che ospitavano gli abitanti del paese. Per maggior sicurezza, si costruì un riparo con grosse travature in legno connesse tra la roccia e il cosiddetto “scagnel” costruito ancora ai tempi dei lavori stradali appositamente a questo scopo e che tuttora esiste (esiste pure oggi nel 2018).Ricordo che la mamma, che sapeva bene controllarsi, come al solito mi aveva accompagnato a letto assieme ai fratelli e ai cugini più piccoli di me. La mia testa era però piena degli avvenimenti del giorno e non mi riusciva di addormentarmi: mi rialzai e ridiscesi in cucina.... l mamma voleva ricondurmi a letto ma io tenni duro e rimasi alzato l'intera notte a vedere.... Era una pietosa confusione! Ad una certa ora arrivò una guardia annunciando che un secondo ramo del torrente era deviato verso il paese. Figuratevi la generale costernazione. Il grido fu unanime: “ Signore Dio salvate le nostre case!” Il timore aumenta e qualcuno già prende la via verso il Forno di Noval. I miei genitori, per precauzione, svegliarono i piccoli e li trasportarono nel vicino rustico, da dove, al bisogno, avrebbero potuto mettersi al sicuro nel bosco. Non si sentivano al sicuro nemmeno nella casa meno alla portata del torrente.
Fu la notte degli incubi! Dirò ancora che, mentre si sospirava l'approssimarsi dell'alba, tutti s'inginocchiarono ai piedi di un'immagine di Maria e con grande devozione venne recitato il Santo Rosario. Pregavano con grande fervore anche coloro che, durante il giorno, forse per spavalderia o per farsi coraggio, avevano combinato una mezza ubriacatura... ma noi uomini siamo così: nel momento del pericolo ricorriamo con fede al Signore. Trascorso questo ritorniamo alla nostra consueta fragilità.
Quando Dio volle si fece finalmente chiaro dopo una notte che era sembrata senza fine. Il cielo sembrava meno plumbeo e in qualche punto tendeva a schiarirsi per cui l'animo di tutti iniziò a sollevarsi. Pian piano, i più si avviarono alle loro case le quali, per grazia di Dio, erano ancora in piedi ma quale disastro in molte strade, prati, orti e frutteti! I due rami d'acqua fuoriusciti dall'alveo avevano trasformato ogni cosa in una morena scavando il terreno anche fino a due metri di profondità: l'angolo di fondazione di una casa del paese si presentava sospeso nel vuoto.......
Fra i commenti del giorno dopo, a pericolo scampato, gli uomini dicevano. “ Possiamo ringraziare Dio di averla scampata bella!”. “E sì” commentavano in risposta le donne “l'abbiamo scampata per miracolo e se le nostre case sono ancora in piedi, voi uomini lo dovete al signor Parroco che è un sant'uomo come ben pochi: noi ieri l'abbiamo visto sul prato del Sant che, con un crocefisso in mano, benediceva il Noce perché non portasse via le nostre case”. Erano le donne di un tempo che custodivano in cuore un forte sentimento religioso......
A questa alluvione, di buona memoria, altre ne seguirono, in media una ogni diedi anni, tutte con parecchia preoccupazione degli abitanti, molti dei quali, per precauzione, abbandonarono l'abitazione per per portarsi al sicuro in altre case o ad Ossana......
Pure Ossana nei tempi che furono ebbe la sua parte di inondazioni; ciò è confermato dalla attuale configurazione del paese dove le cantine sotterranee si contano a decine, profonde, un tempo ingombre del materiale franato dalla Val Salin......


E a questo punto ecco i miei ricordi... alcuni ancora nitidi, ben impressi nella mente come quelli dell'alluvione di fine agosto, inizio settembre del 1960 (avevo undici anni) quando il torrente Vermigliana, gonfio ed intasato dai detriti morenici franati dalla Val Furesta devastò la zona della Poia, poco a monte del paese, rendendola irriconoscibile.. Anche in quell'occasione ci fu un fuggi fuggi generale e gli abitanti del paese si rifugiarono nella poche case ritenute sicure portando con loro gli oggetti indispensabili e più preziosi. Il torrente uscito dagli argini, appena a valle del paese, si aprì una nuova via deviando nella campagna e demolendo un rustico e danneggiando irreparabilmente una periferica casa d'abitazione. Oggi sul fondo, ancora ben riconoscibile, di quell'alveo, scavato dalle acque allora fuoruscite dagli argini, fa bella mostra di sé una casa di vacanzieri e nei dintorni più prossimi sono sorte altre numerose case e un camping....
Ricordo poi l'alluvione del 1966, l'alluvione che sommerse Firenze e Trento ma che fortunatamente quassù non provocò grandissimi danni.. Rammento la grande nevicata di quell'inizio di novembre che imbiancò abbondantemente l'Alta Valle; ricordo il repentino squagliarsi della neve che contribuì non poco a ingrossare torrenti e fiumi facendoli poi esondare. Ricordo che, qualche giorno dopo il disastroso avvenimento, riuscii, con grande difficoltà a ritornare a Trento, dove studiavo, per “dare una mano”... con altri amici, contribuii a svuotare dal fango le cantine della casa di un compagno di classe.
Molti altri furono gli episodi alluvionali di minore entità che ricordo bene. Tra questi ho ben presente quello dell'estate del 1987 quando, durante la notte, gran parte del paese venne sgomberato. Turisti e residenti si dovettero rifugiare nelle poche zone sicure dell'abitato. Con le mie due gemelle di pochi mesi trovai calorosa e confortevole accoglienza in una delle poche case che sovrastano il paese.



Tutte le foto del Torrrente Vermigliana
(la mattina del 30 ottobre, dopo una notte di timore)
si trovano in “Google Foto