Cervi in Val del Monte a metà settembre


Anche quest'anno è arrivato il momento di salire sulle Mandriole per vedere se i cervi che solitamente pascolano lassù, oltre il limite della vegetazione arborea, frequentano ancora quei versanti.
Durante i caldi mesi estivi su quelle alture, dove gli ultimi larici diradano lasciando spazio a ripide praterie, si possono solitamente ammirare branchi di femmine con i piccoli intenti a brucare l'erba appena spuntata.
Più tardi, in settembre, quei ripidi fianchi erbosi sono attraversati da maschi, isolati o in minuscoli drappelli, intenti a perlustrare la zona e, ancora più avanti, a cercare e raggruppare le femmine pensando agli ormai prossimi accoppiamenti.
Ed è proprio in questo periodo (la metà di settembre è appena passata) che, come ogni anno, decido di salire sugli versanti della Val del Monte, a picco sul lago artificiale del Palù, per scoprire se i palcuti maschi di cervo, finora solitari, invisibili, eclissati nelle selve, sono usciti allo scoperto unendosi ai branchi di femmine.

Parcheggiata l’auto al Fontanino di Pejo, risalgo con l'amico di sempre, la strada bianca che conduce sulle sponde del lago artificiale. La notte è senza luna e attraversando alcuni tratti di bosco fitto siamo costretti a rischiarare il cammino con le nostre piccole lampade frontali. Raggiungiamo il lago che è ancora buio. La vista dall’alto delle potenti luci che, poste a guardia dello sbarramento, si riflettono nelle oscure acque sottostanti mi inquieta e mi induce ad allungare il passo… Ben presto, però, verso oriente si fa giorno e, in lontananza, già si distinguono nettamente i cupi contorni dei monti che separano la Val di Pejo dalla Val di Rabbi, le creste rocciose che contornano i valichi Cercen e Cadinel, Poi, sopra di noi, sullo sfondo nero del bosco, emerge dal pascolo livido il bianco stallone di Malga Guimela. Le finestre sono illuminate. I pastori sono al lavoro per la mungitura del primo mattino. Ci giunge lo scampanio delle mucche in movimento e l’abbaiare furioso di un cane. Siamo ormai vicini alla malga ma evitiamo accuratamente di costeggiare l’edificio (preferirei incontrarmi con l’orso piuttosto che con un cane arrabbiato) e, tagliando verticalmente per il prato, raggiungiamo comunque la stradina che conduce ai Paludei. La seguiamo per un buon tratto, poi imbocchiamo i sentieri che salgono alle alte praterie delle Mandriole. Nel frattempo l’estremità della val del Monte si è illuminata. Investita dai raggi dal sole nascente, verso la Sforzellina, i picchi del Corno dei Tre Signori e i crinali della Montagna di Ercavallo, si è accesa di rosso e di arancione. Ma non c'è tempo per osservare il paesaggio e, mettendo in fuga tre cerve, raggiungiamo rapidamente il limite della vegetazione arborea, i pascoli alti e gli ultimi radi lariceti.




























Ci sistemiamo in un avvallamento del terreno e scrutiamo trepidanti, binocolo alla mano, l'ampio vallone che ci sovrasta. La località, molto aperta, non consente di procedere oltre, non consente purtroppo alcun avvicinamento ai selvatici senza essere individuati e quindi, solitamente, ci si deve accontentare di osservazioni da distanze notevoli. E questo vale anche per gli scatti fotografici i cui fotogrammi devono talvolta essere ritagliati a dismisura, a scapito della definizione, per ottenere un sufficiente ingrandimento dei soggetti ritratti. Accade ben raramente che qualche cervo, deviando dai percorsi usuali si avvicini ai tronchi o alle rocce che ci nascondono e quando succede è davvero una grande emozione... e fotograficamente una grande occasione.




























Attendiamo speranzosi ai piedi del versante ormai inondato di luce. Attendiamo... ma, fortunatamente, non a lungo... Quasi subito un improvviso trambusto, proveniente dal lariceto in alto, alla nostra sinistra, ci fa trasalire. Del tutto inaspettato sbuca un camoscio seguito, poco dopo, un piccolo branco di cerve. Attraversano il versante al galoppo. Ma ecco... subito si fermano, controllano i dintorni. Hanno “colto” l'estranea presenza, le cerve sono sospettose ma ancora confuse, incerte sul da farsi.




























Riprendono la corsa. Ora con loro c'è anche un vivacissimo cucciolo che le ha appena raggiunte. Poi, finalmente, in coda al gruppo compare “il maschio”... lo stavamo proprio attendendo... Un classico: un maschio prestante con il suo harem.
Ma... guardando con attenzione, ci accorgiamo che quel maschio è ben poco prestante, è un maschio con un trofeo ben ramificato ma non poderoso, un trofeo poco competitivo. Quello è' un maschio probabilmente destinato a cedere quanto prima il suo dominio sull'harem nella ineluttabile competizione con altri individui molto più robusti... un “illuso” che ben difficilmente potrà accoppiarsi con le femmine che ha radunato e che per il momento lo accompagnano.
Quanto ci piacerebbe assistere agli scontri per il dominio di questo piccolo gruppo ma per il momento non è possibile, non si vedono competitori nei dintorni.




























Osserviamo e fotografiamo a lungo questo branco, il maschio con le sue femmine, fino alla loro scomparsa nel fitto del lariceto sulla nostra destra. “Sbinocoliamo” a lungo senza scorgere altri selvatici.... Il camoscio, apparso poco prima dei cervi, è ancora lì, lontano da noi, immobile. Ci guarda insistentemente, dall'alto del pendio... poi, lentamente si dilegua celandosi tra gli ultimi alberi. E' ancora presto e attendiamo. Nulla. Stormi di neri gracchi svolazzano insistentemente tra il cielo e il pascolo. Compare anche l'aquila, solo per pochi istanti... sfiora le creste che ci sovrastano e subito si allontana.





























Ma ecco, nuovamente dei cervi... finalmente. Sono molto distanti, quasi sulla cima del vallone. Sono quattro, tutti maschi... tre giovani e un esemplare più maturo, decisamente possente che di tanto in tanto, risalendo il pendio, insegue i compagni più gracili cercando di allontanarli. Un comportamento aggressivo tipico dei cervi maschi in questo periodo. Un comportamento prepotente, violento, dettato dall'istinto... ma che chissà perché, per qualche istante, mi richiamano alla mente anche certi comportamenti dell'essere umano quando, abbandona la ragionevolezza di cui è dotato, si lascia guidare solo dall'istinto per difendere, costi quel che costi, ciò che ritiene di sua esclusivo dominio, di suo esclusiva proprietà... iniziando dalla compagna (o dal compagno) da “proteggere”, si fa per dire, dalle “sbandate” o da eventuali rivali, finendo con il “suo” territorio, con la sua “civiltà”, da preservare dall'assalto dell'orda degli invasori provenienti da terre sconosciute, passando naturalmente per la tutela dei suoi beni materiali, da salvare sempre e comunque, in ogni caso, con ogni mezzo, costi quel che costi, senza remora alcuna...




























Ma rieccomi nuovamente concentrato sui quattro cervi. Ancora per poco perché i cervi scompaiono quasi subito dietro una balza erbosa per riapparire, ma solo per qualche istante, dove meno me te l'aspetti, sul crinale opposto del monte.
Non del tutto appagato attendo ancora. So che ormai è probabilmente inutile trattenersi oltre, l'ora è tarda, ma siccome “non si sa mai” non mi rassegno e con l'amico ormai distratto e impaziente, aspetto ancora. Aspettiamo ancora, assieme, contando i minuti... Invano.

Dobbiamo accontentarci... Decidiamo di scendere a valle ritenendoci complessivamente soddisfatti di ciò che abbiamo osservato: il camoscio, il primo harem della stagione, l'aquila e i quattro cervi maschi in perlustrazione.
Scendendo verso il Fontanino, già penso a quando risalirò quassù seguendo questi stessi sentieri, questa stessa strada. Penso a quando tra pochi giorni ritornerò su questi pendii per assistere, così almeno spero, ad uno spettacolo sicuramente più emozionante di quello odierno, lo spettacolo dei cervi in amore intenti ad inseguirsi e talvolta pure a combattere per il possesso delle femmine. Penso a quando ritornerò quassù per ascoltare da vicino il loro possente bramito che, a cavallo tra settembre e ottobre, dai versanti dei monti del Parco dello Stelvio, si diffonde ovunque... quel selvatico mugghio che riecheggiai da un versante all'altro delle valli, che inonda il fondovalle, che lamentoso raggiunge le malghe, i masi sparsi, e più flebile anche i paesi più prossimi...



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Funghi all'improvviso






Finalmente a settembre, come per incanto, è comparso, in ogni dove, il sorprendente popolo dei funghi. Sì perché il popolo dei miceti è veramente un popolo sorprendente e misterioso. E' un popolo che appare e scompare all'improvviso. Uno strano popolo ma comunque stupendo, incantevole nei suoi innumerevoli aspetti, nella molteplicità delle forme e dei colori dei suoi membri: funghi o funghetti che siano... un esercito di miceti bianchi, grigi, gialli, arancioni, rosa, rossi, bruni, neri, viola, verdi, azzurri e chi più ne ha più ne metta.





Ma eccoli, eccoli i funghi settembrini, numerosissimi, diffusi in grande quantità e varietà nel sottobosco umido e fresco del primo mattino. Sono sbucati simultaneamente dalla terra zuppa ancora annidata nella semioscurità della selva avvolta dalla nebbia persistente: un presagio d'autunno.




Eccoli, alle prime luci del giorno, arricchiti dalle gocce di rugiada. Eccoli inzuppati dalla pioggia caduta nella notte. Ma non solo. Eccoli anche sul terreno asciutto, sulla terra secca, nella luce abbagliante del primo pomeriggio che filtra violenta nelle radure; eccoli, nella luce tenue ma calda di un'alba limpida o di un tramonto sereno; eccoli nell'ombra scura e compatta della foresta più fitta, nell'intrico di alberi e cespugli.






E' stagione di funghi. Si cammina lentamente nel bosco, tra i muschi, le acetoselle, le felci, le piante di mirtillo nero e rosso considerando con tranquillità e attenzione ogni minima cosa che arricchisce il terreno, che decora l'ambiente.





Si esplora, si guarda in ogni dove, si osserva tutto ciò che di suggestivo offre il bosco: si ammirano le alte conifere, le latifoglie e le erbe ancora verdi, gli ultimi fiori, i frutti del sottobosco ma soprattutto i funghi nella loro incredibile diversità di dimensioni, di fogge, di tinte.






Soprattutto i funghi... la comunità multiforme dei miceti... i funghetti minuscoli, appena visibili e i funghi giganteschi spesso coriacei, legnosi... tutti i funghi... morbidi, vellutati, lisci, ruvidi, rugosi, squamosi, bavosi...



E ora sono veramente tantissimi i funghi ma solo ora che siamo all'inizio di settembre. Sì, perché fino ad alcuni giorni fa, si girovagava a vuoto nelle selve trovandovi ben pochi miceti. Si scarpinava inutilmente senza poter minimamente ammirare l'attuale, settembrina quantità e varietà di funghi, che poi è la stessa quantità e varietà dei miei ricordi, quella che però, un tempo non lontanissimo, impreziosiva il sottobosco, durante l'intera stagione estiva, da giugno all'inizio d'ottobre, non solo ora, a settembre.





Solo ora... Solo ora la terra si è decisa ad elargire a piene mani i suoi frutti. Solo ora sono spuntati funghi in abbondanza, anche alle quote più basse, lungo il torrente e sulle pendici dei versanti più bassi della valle. Prima solamente qualche esperto fungaiolo riusciva a scovare i gallinacci e qualche porcino ma in alto, ai margini dei pascoli e nelle fresche abetaie più elevate.





Colpa del cambiamento climatico? Difficile poterlo stabilire con sicurezza. Solo l'abate Bresadola, il grande micologo “solandro”, sarebbe forse stato in grado di individuare le cause della sopravvenuta carenza di miceti durante i mesi centrali della stagione estiva. In modo rigorosamente scientifico, ma solo forse....





Si può comunque supporre che la scarsità di funghi sul fondovalle nei mesi di luglio e agosto, la loro tardiva apparizione e il protrarsi in autunno del periodo della loro comparsa potrebbero essere una delle molteplici conseguenze del riscaldamento globale.




Solo un'ipotesi, la mia, un'ipotesi che lascia il tempo che trova suffragata comunque dal fatto che, anche da noi, in montagna, la carenza di miceti in estate sta diventando una costante come lo è sempre stata in pianura e in collina dove lo spuntare dei funghi è da sempre autunnale quando il clima si fa più fresco e umido.




Ma bando alle considerazioni pseudoscientifiche e godiamoci questo improvviso regalo della natura, questa tanto attesa apparizione e non disdegniamo l'attenta e prudente raccolta di qualche bell'esemplare. E ricordiamoci che a tavola un “misto” di funghi ben dosato è sempre gradito e che le fette di “brisa” (Boletus Edulis – un porcino particolarmente abbondante in questi giorni) ben seccate all'ultimo sole estivo si conservano a lungo permettendo, durante la stagione fredda, la preparazione di caldi e aromatici risotti .


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Gli ultimi fiori di un'estate morente



Fine agosto 2018              

Passeggiate di fine agosto dopo la pioggia della notte, brevi sgambate sulle stradine di fondovalle tra boscaglie intriso d'acqua e prati sfavillanti ai primi raggi del sole.
Salubri camminate al limitare delle selve, nell'aria umida e fresca del mattino, dopo lunghe settimane di opprimente ed afosa calura
Distensive scarpinate tra nebbie che dal piano risalgono i versanti della valle e nubi in dissoluzione. Passeggiate nella luminosità diffusa da un sole ancora velato, un sole fiacco che filtra instabile tra le ultime nubi accarezzando cespugli ed erbe fradice di rugiada lungo i margini delle stradine. Sole che solitamente vince, che vince risplendendo sempre più deciso in un cielo sempre più limpido. Sole che ravviva il prato e il suo gocciolante groviglio verde...
Nell'aria ormai tersa il sole colpisce, impatta sfavillante e ancora forte sulle mille erbe del prato. E le gocce risplendono ai suoi raggi radenti, brillano sul trifoglio, sulla trifoglina, sulla vicia, sull'achillea, sulle candide infiorescenze delle ombrellifere, sugli ultimi ranuncoli che tremolanti, mossi da un lieve venticello, sembrano in attesa, un'attesa paurosa, dell'ultimo sfalcio.
Minuscole goccioline risplendono sul fiore grondante dell'erbe del cucco... L'acqua brilla sul colchico autunnale, il tossico fiore che colora di rosa la fine dell'estate e brilla sul gigantesco epilobio, brilla sulle sue infiorescenze, sui bordi dei rossi petali resi traslucidi, quasi trasparenti, dal velo bagnato. E pure le piccole felci, sul bordo della mulattiera, ai piedi del muretto a secco che la delimita, luccicano ai raggi del sole fattosi alto e potente.
Esploro ogni angolo alla ricerca di composizioni, forme e colori che la pioggia della notte ha arricchito e il sole fa risplendere. Ultime note variopinte di un'estate che volge al termine. Settembre è infatti ormai alle porte e si respira un'aria nuova, un'aria più fresca e più profumata, l'aria che annuncia l'autunno. Anche i rumori e i suoni della valle stanno mutando. La confusione e il frastuono estivo si stanno infatti lentamente dissolvendo sfumando, a poco a poco, nella quiete e nel silenzio della stagione morta.
Il sole si fa di giorno in giorno sempre più basso, le ombre si allungano e sui pascoli più alti emergono, qua e là, gli alti scheletri rinsecchiti dei cardi infestanti e, al limitare del bosco, inizia a comparire qualche macchia di felci giganti ingiallite e di ortiche appassite e raggrinzite. Un ulteriore malinconica avvisaglia di un'estate che è ormai agli sgoccioli, un'estate in agonia...




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Percorrendo una vecchia stradina... tra Celledizzo e Celentino








Una tranquilla passeggiata di fine agosto, un'andata e ritorno sul versante della Val di Pejo che guarda a ponente tra i paesi di Celledizzo e Celentino. Una scarpinate solitaria calcando un comodo e ben tenuto viottolo, una strada poderale il cui tracciato probabilmente ricalca i primitivi percorsi, i vecchi sentieri e le mulattiere che collegavano i villaggi della valle, i numerosi nuclei abitati dalle origini incerte, dalle origini che si perdono nel tempo...



Erano insediamenti fino ad un tempo non lontanissimo densamente abitati da una popolazione che da sempre viveva quasi esclusivamente di una agricoltura di sussistenza, coltivava ogni appezzamento di terreno, anche il più piccolo lembo di terra, ricavato disboscando e terrazzando i pendii della montagna. Quei campi, quei fazzoletti di terra  rubati ai versanti della valle, oggi non esistono più. Sono scomparsi inghiottiti dalla boscaglia che ha avuto il sopravvento riconquistando in pochi anni ciò che l'uomo le aveva stappato con immense fatiche nel corso dei secoli.




Oggi si sfruttano solamente i terreni più comodi, si utilizzano solo quei prati falciabili che si estendono sulle zone più pianeggianti o poco ripide, comunque sempre lavorabili con l'ausilio di trattori o di altri moderni congegni meccanici... Quindi in Val di Pejo come in tutta la media e alta Val di Sole si produce solo fieno, foraggio destinato soprattutto ai pochi ma grandi e moderni allevamenti bovini sparsi un po' ovunque.





Ed è questo ambiente, radicalmente mutato rispetto ai ricordi dei miei verdi anni, che osservo camminando tra Celledizzo e Celentino: solo monotone distese di prati che rivestono il fondovalle e le coste meno erte... e dove il fianco del monte si fa ripido solo boscaglie di latifoglie di recente formazione che sconfinano nelle scure foreste di conifere che coprono i monti.




L’alternarsi pittoresco dei prati, dei frutteti, dei seminativi e degli orti sul fondovalle e sui versanti più solatii, il rosso e l’azzurro del papavero e del fiordaliso nei campi dorati, il volo dei maggiolini nelle serate primaverili e delle lucciole nelle buie notti estive, sono solo lontani ricordi... Il paesaggio si è decisamente trasformato, semplificato: solo prati e bosco. Distese a prato uniformemente verdi e boschi invadenti, boschi che occupano gli incolti, che riconquistano le superfici che nel corso dei millenni le erano state sottratte.





Vedo solo alcuni piccoli orti nei pressi dei paesi e qualche rarissimo campo ritagliato all'interno dei prati... campo di patate per il solo fabbisogno familiare. E pensare che un tempo il paese di Celledizzo era rinomato per l'abbondanza e l'ottima qualità della sua produzione di patate... così almeno raccontava mio padre che nei volti di Celledizzo si recava a fare scorta di quei bei tuberi per l'inverno.




E poi... sparsi qua e là sui versanti della valle, vedo alcuni masi ancora in piedi, gli ultimi, superstiti rustici edifici che fino a pochi decenni fa erano adibiti, in buona compagnia, a fienile e a stalla temporanea e che oggi sono in attesa d'essere alienarti, consolidati, ristrutturati e convertiti, come già avvenuto per la gran parte dei loro simili, in seconde case per i brevi soggiorni di quei turisti che prediligono la pace delle zone aperte al caos ferragostano dei centri abitati.





Lungo il percorso, appena a lato della stradina, ne incontro due di rustici masi. Due masi intatti, non ancora convertiti alle nuove esigenze dell'economia turistica. Uno, in particolare, è ancora utilizzato, fa infatti parte di un'azienda agricola ancora attiva.






Nei suoi dintorni pascolano e ruminano alcuni giovani bovini e nel recinto addossato all'edificio, a mo' di improvvisato pollaio, razzolano tranquille delle galline ovaiole, delle faraone, polli, e anatre... sorvegliate da un bel cane...






E' una vista inconsueta, quasi sorprendente; ormai capita raramente di poter vedere delle galline allevate all'aperto come si faceva un tempo...





Nei pressi di Celentino trovo un grande crocefisso ligneo e un capitello che sovrasta la stradina. Sono i segni del sacro, gli emblemi di una fede semplice che, in passato, tanto contribuì a sostenere le popolazioni locali nella loro quotidiana battaglia per la sopravvivenza e che ancora oggi aiuta molti credenti.




Quassù, sempre nei pressi di Celentino, rinvengo anche l'imbocco dell'unica miniera di ferro del versante sinistro della Val di Pejo. Tutte le altre numerosissime gallerie si trovano sul versante opposto, il versante di Comasine. E' questa la miniera denominata di San Cesare che fu dismessa nel 1968 e che oggi è segnalata solo da un vecchio cartellone quasi illeggibile (collocato chissà quando dall'Associazione Linum).




La località è totalmente abbandonata, l'ingresso della miniera è invisibile avvolto com'è dalla vegetazione infestante. Peccato... un'ennesima prova di come troppo spesso ai nostri amministratori e governanti in generale la salvaguardia e il recupero del patrimonio storico, culturale e artistico locale poco interessi impegnati come sono a portare a termine interventi di altra natura, finalizzati soprattutto all'incentivazione del turismo, un turismo stagionale, poco qualificato, di massa...



Ma bando ai cattivi pensieri! Al cospetto del panorama sulla Cima Boai e sulle vette del gruppo Ortles-Cevedale non posso non deliziarmi di tanta bellezza ma (purtroppo c'è sempre un ma) di fronte alle sempre più estese boscaglie che ammantano la valle, alle superfici a prato sempre più ridotte, alla totale assenza di campi coltivati, davanti alla dilatazione, alquanto disordinata, dei centri abitati, non posso non pensare alle conseguenze che la mutazione economica degli ultimi decenni ha comportato per la nostra valle.


Ed eccomi quindi a riflettere su come il “progresso” sia riuscito in poco tempo a cambiare radicalmente la fisionomia secolare della valle. Su come le luci abbacinanti della facile corsa al benessere abbiano talvolta condotto a scelte di “sviluppo” non sempre sufficientemente ponderate.
Sì perché la maggiore prosperità dei “tempi nuovi” ha comportato un generale degrado dell'ambiente connesso all'abbandono delle tradizionali pratiche agricole (sempre attente alla cura e manutenzione del territorio) e, soprattutto in alcune zone, un degrado connesso ad uno scandaloso consumo di suolo, ad un decadimento paesaggistico e naturalistico a favore di un turismo troppo invadente, troppo legato alle mode del momento.

Nostalgia per un mondo che non esiste più? Direi proprio di no… Impensabile, assurdo un ritorno ai “vecchi tempi”... Però... ancora un'ultima considerazione, prima del mio rientro. Un tempo, tutto sommato non lontanissimo, gli abitanti della valle riuscivano a campare sfruttando, seppure all'osso, solo il loro, unicamente il loro, patrimonio. Un patrimonio fatto di terre coltivabili povere ma che comunque, di anno in anno, davano il necessario sostentamento. La valle produceva da sola, manteneva i valligiani da sola con le proprie seppur misere risorse, non dipendeva, se non in minima parte, dagli accadimenti esterni, da ciò che succedeva al di fuori dei propri confini.  Era un'economia statica, solo contadina, di pura sussistenza ma in compenso era decisamente stabile.




L'odierna economia, sostanzialmente a sola trazione turistica, è sicuramente molto più ricca ma è inevitabilmente legata agli accadimenti esterni, a ciò che succede al di fuori del proprio territorio e quindi è probabilmente più fragile. Potrebbe bastare una congiuntura economica negativa, o semplicemente il mutare delle mode a metterla in crisi decimando l'afflusso dei turisti. Il benessere di una intera valle potrebbe venire compromesso dalla mancanza di alternative produttive.




Senza dimenticare che il il futuro della stagione turistica invernale (che si è voluta legare, quasi esclusivamente, alla pratica dello sci) è nelle mani di un cambiamento climatico sempre più allarmante. Forse, a mio giudizio, un'economia meno unidirezionale, più diversificata, che incentivi tutti i settori produttivi e non guardi solo a quello turistico potrebbe riservare un futuro economicamente più sicuro.




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Belle le vette del Gruppo Ortles-Cevedale... Dalla stradina si osservano benissimo le cime del Taviela e del Vioz, cime che superano abbondantemente i 3600 m di altitudine. Sovrastano l'abitato di Pejo Paese con lo storico Dosso di san Rocco. Guardando attentamente si individuano anche gli impianti di risalita realizzati in questi ultimi anni: la funivia Pejo 3000 e la seggiovia Seroden con relativa pista di discesa. Ma questo, a parer mio, non è uno spettacolo molto edificante visto che queste strutture sono state realizzate in pieno Parco Nazionale dello Stelvio. Di funi e tralicci il bel Parco ne aveva già a sufficienza. Sembra quasi che le aree naturalisticamente protette della nostra provincia stiano rinunciando a svolgere il loro ruolo istituzionale orientandosi verso obiettivi di altra natura, obiettivi di pura promozione turistica (quasi fossero specchietti per le allodole, al servizio delle Aziende di Promozione Turistica...  delle loro succursali). Sono lontani i tempi e non intendo cronologicamente, in cui la nostra Provincia divenne un modello, un esempio di gestione ambientale per l'intero Paese. Erano i tempi di Walter Micheli che a cavallo tra gli anni '80 e '90 riuscì ad ottenere e consolidare notevoli risultati nella valorizzazione e protezione del nostro territorio. Purtroppo di quei tempi resta solo il ricordo... da allora le cose sono molto cambiate...