Comasine, un piccolo paese ma con parecchi spunti d’interesse

 


Comasine è un paese minuscolo che probabilmente non supera i cento abitanti, ma che merita d’essere visitato per più di un motivo. Io lo raggiungo più volte durante la bella stagione percorrendo a piedi la strada bianca che vi sale dal Forno di Novale all’imbocco della val di Peio. Per il rientro da Comasine solitamente scelgo la stessa via dell'andata, ma, talvolta, allungo il percorso e scendo sul fondovalle per la strada provinciale per imboccare poi, nei pressi di Celledizzo, la pista ciclo-pedonale dove cammino, in riva al fiume Noce, fino al punto di partenza. La passeggiata è bella, ma non brevissima. Consente di perlustrare una parte del basso versante destro della Valletta (la Val di Peio), di immergersi nei suoi ripidi prati e nei suoi boschi (stupendi in primavera e in autunno) rimanendo sempre in vista, sul versante opposto, dei paesi di Strombiano e di Celentino, dei monti che li sovrastano come pure, sullo sfondo, delle alte cime che chiudono la valle (Vioz, Cevedale). ["El Foren de Noval" e "Brina e nevischio sulle stradine tra Novale e Comasine": link a due miei vecchi post]




A chi volesse seguire il mio esempio consiglio di non limitarsi a raggiungere le prime case del paese, ma di proseguire, di inoltrarsi nel centro storico per ammirare le antiche architetture degli edifici (molti ben restaurati) e dei superstiti rustici fienili, gli intonaci chiarissimi delle murature sovrastati da scurissime sovrastrutture lignee sulle quali di tanto in tanto si erge il tozzo campanile della chiesa.  




Si tratta della la chiesa di S. Matteo, posta al centro dell’abitato, un edificio che costituisce, senza alcun dubbio, uno degli elementi più interessanti di Comasine, una delle sue più peculiari attrattive. Io però non ne parlerò. Questo mio post non è la sede più adatta per una narrazione storica ed una presentazione delle caratteristiche architettoniche e artistiche di questo sacro fabbricato e quindi non mi dilungherò oltre anche perché non farei altro che riassumere le informazioni che ho trovato in Internet e che chiunque, se interessato, può facilmente scovare come io ho fatto.




Così farò anche per l’altra chiesetta di Comasine, la chiesa di S. Lucia, una tra le più antiche di tutta la valle. Una chiesetta divenuta, nel tempo, uno degli emblemi, delle insegne, non solo della Val di Peio ma anche dell’intera Val di Sole per il suo paerticolare impatto paesaggistico. Posta a monte del paese sulla sommità di un colle, tra due incisioni vallive interessate dalla valanga, la si raggiunge in una ventina di minuti percorrendo la parte iniziale (ben asfaltata) della lunga strada (bianca) che sale alla malga di Val Comasine. ["Santa Lucia dei minatori in quel di Comasine": link ad un mio post]




Una lunga stradina che a metà percorso sfiora e in parte pure attraversa quella che fu la principale area mineraria della Val di Peio, una zona un tempo costellate da numerose gallerie per l’estrazione di magnetite. Estrazione un tempo importantissima e la stessa chiesetta di S. Lucia ce lo rammenta, infatti in essa non si venerava e si venera S. Lucia solamente come protettrice della vista ma anche come protettrice dei lavoratori delle miniere. Miniere, minatori, altoforni, officine, magli... lo sviluppo economico di buona parte della Val di Sole soprattutto nei secoli XIII-XIV e seguenti è riconducibile allo sfruttamento dei giacimenti di minerale ferroso a monte di Comasine... ma basta così, altro non aggiungo per quanto riguarda l’attività estrattiva sui ripidi pendii del Boai, chiunque potrà facilmente trovare molte informazioni per soddisfare la propria curiosità “veleggiando” in Internet, cosa che io stesso ho fatto più volte e ancora di tanto in tanto faccio. ["Alla scoperta delle miniere perdute" : link a un mio vecchio post sull'argomento]




Un accenno è invece dovuto ad un altro sito che per la sua particolarità può sicuramente contribuire rendere ancora più interessante una visita a Comasine e ai suoi dintorni. Nei pressi di Malga Comasine (tra le malghe Comasine e Mason poco oltre il Camp, pianoro panoramicamente spettacolare) si trova il “Bosco dei larici secolari” dove svettano circa 130 grossi esemplari di questa essenza forestale emergendo da una formazione boschiva di più recente formazione. Sono larici nati circa 600-650 anni fa e sfuggiti alcuni decenni dopo, a causa della loro minuscola dimensione, al taglio raso del bosco (intorno al 1450), salvandosi dall'abbattimento delle piante circostanti, piante che vennero sistematicamente trasformate (sulle aial) in carbone da utilizzare per la fusione del minerale ferroso (inizialmente a Cogolo e più avanti al Forno di Noval). Qell’area della Val Comasine, così disboscata, fu per secoli utilizzata come pascolo alberato (ombreggiato esclusivamente dai larici sopravvissuti) e ciò spiega l’assenza di piante di età intermedia…. Non aggiungo altro. Internet, anche in questo caso, può appagare ogni desiderio di approfondimento. ["Il bosco dei larici secolari e e miniere di ferro in Val Comasine": link a un mio post di alcuni anni fa] 




Il paese di Comasine, molto attrattivo per le sue architetture, per le sue due chiese, per i suoi dintorni paesaggisticamente incantevoli e storicamente così importanti, custodisce anche una piccola casa che, a prima vista “dice” ben poco all’ignaro visitatore, all’estraneo che casualmente vi passa accanto, ma certamente non a chi risiede in paese e, si spera, anche nella Val di Sole tutta. Si tratta infatti della casa avita di Giacomo Matteotti, la casa dei suoi nonni e dei suoi bisnonni... la casa dove nacque suo padre poco prima che la famiglia Mateotti si trasferisse a Fratta Polesine. Una piccola lapide commemorativa posta sulla facciata principale della casa ricorda questo uomo coraggioso,
vittima del totalitarismo fascista e delle cui origini la comunità di Comasine deve andare e certamente va giustamente fiera. ["La casa avita di Giacomo Matteotti": link ad uno dei miei primi post]


Altre foto di Comasine in "Google Foto"




Terra di Galizia... terra anche solandra

 

Galizia, una terra martoriata dalla guerra che, tra l'altro, accoglie, da più di 100 anni, anche le spoglie di molti soldati solandri  



Così scrivevo durante l’estate del 2015 nel mio post Forte Barbadifior:

Esattamente cento anni fa il Regno d’Italia entrava nel conflitto europeo già in atto da quasi un anno dichiarando guerra all'Impero Austroungarico di cui il Trentino faceva parte. La trentina Val di Sole si trovava quindi, già da tempo, coinvolta nei tragici accadimenti  che stavano sconvolgendo l’Europa e stava già pagando il suo tributo con il sangue dei suoi uomini inviati, volenti o nolenti, a  combattere soprattutto in terra di Galizia.   Anche per ricordare a modo mio, questo evento, al di fuori delle retoriche celebrazioni che solitamente accompagnano questa come altre simili ricorrenze, ho pensato di salire, qualche giorno fa, al fortino Barbadifior a Peio Terme, per scambiare qualche considerazione con il mio amico su quei tristi tempi, e qualche impressione osservando e fotografando ciò che rimane di questa austroungarica struttura fortificata."


100 anni fa! Sono trascorsi più di cento anni, ma nulla è cambiato, non è finita… le guerre nel frattempo hanno continuato a “vincere”, in tutto il mondo, ora di qua, ora di . In questo periodo si combatte nuovamente anche in Galizia, proprio dove, durante il primo conflitto mondiale, persero la vita molti nostri valligiani. Da parecchi giorni quella che fu la Galizia occidentale, la terra di Leopoli, ora facente parte dello Stato ucraino, stanno piovendo le bombe mentre nella Galizia orientale, in terra polacca, si stanno ammassando donne e bambini in fuga dalla guerra. Tragici avvenimenti che stiamo seguendo con trepidazione, che ci angosciano, ma che stanno lì, irremovibili... stanno lì a confermare per l'ennesima volta come l’uomo compia sempre gli stessi errori, a sancire come il passato, tutte le immani tragedie del XX secolo, gli abbiano insegnato ben poco, nulla sostanzialmente. Qualche potente di turno riesce sempre a “regalarci” dei nuovi orrori. Oggi ne “beneficia” anche la Galizia ucraina, la regione dove riposano tanti solandri. La Galizia... quella terra martoriata che fu teatro di cruenti combattimenti tra le forze della Russia zarista e gli Imperi centrali durante la grande guerra e di altrettanto orribili eventi durante il secondo conflitto mondiale, sanguinose battaglie e sterminio nazista della popolazione ebraica.


Ma ritorniamo a noi, alla nostra Val di Sole dove ancora sono ben visibili i segni della grande guerra: i ruderi delle fortificazioni e delle caserme sul fronte del Tonale e della Val di Peio, i resti dei villaggi militari in alta quota, le caverne scavate nella roccia, le trincee e i rimasugli dei reticolati, le bombe che emergono dai ghiacciai in disfacimento… e gli ex cimiteri militari sul colle di San Rocco a Peio Paese e a Ossana. Tracce consistenti, ben visibili, che dovrebbero farci riflettere sugli orrori dalla guerra, sulle morti, sulle distruzioni, sulle sofferenze della popolazione...

Le sofferenze della popolazione”, di una popolazione involontariamente coinvolta nei tragici eventi della guerra, oggi in Ucraina (e nella sua Galizia), ieri, 100 anni fa, in Val di Sole. “Sofferenze” di cui tentai  di raccontare” e di documentare, a modo mio, in un post di tre anni fa (Visita al Forte Barbadifior nel centenario della grande guerra), post che ripropongo qui sotto in alcune sue parti.




[...] ritorno sull'altura del forte Barbadifior in occasione della coinvolgente rappresentazione teatrale che si è tenuta proprio lassù a due passi dalla piccola fortezza. “Una Comunità sul fronte – La Val di Peio e la Grande Guerra”, questo il titolo della rappresentazione: un “percorso partecipato dell'Ecomuseo della Val di Pejo” sempre attento al recupero della storia locale, ma non solo, anche delle tradizioni, degli antichi mestieri che si vanno rapidamente dissolvendo, travolti dalla “modernità”, dallo “sviluppo”, dal “progresso” che pur portando un certo benessere sta bruscamente e totalmente affossando anche il ricordo della civiltà che ci ha preceduto disperdendone anche i suoi più genuini valori.



La rappresentazione rievoca le peripezie e le sofferenze della popolazione della Val di Peio suo malgrado coinvolta nei tristi avvenimenti bellici della prima guerra mondiale e in particolare racconta di come la gente di Peio Paese, riuscì, a costo di immensi sacrifici, ad evitare l'evacuazione dal proprio paese, vicinissimo al fronte, e l'internamento nei campi di concentramento situati in terre lontane e sconosciute.



Altre foto della rappresentazione teatrale in “Google Foto

Così non fu per la popolazione di un altro paese della Val di Sole, un paese ancora più prossimo alla linea del fronte, il paese di Vermiglio. Mio nonno, allora aggregato negli Standschütser dovette assistere alla drammatica partenza di quella popolazione verso il campo di Mitterndorf e, molti anni dopo, ricordandola ancora lucidamente, la descrisse in un capitolo delle sue “Memorie”, capitolo che, in buona parte, riporto più sotto....

"... ...Il comando militare... emanò un ordine tassativo alla popolazione delle tre frazioni di Vermiglio, di lasciare i paesi entro le successive quarantotto ore. Non si facevano eccezioni né per infermi , né vecchi, né bambini: tutti dovevano partire a scanso di dover usare mezzi coercitivi.
Ognuno può immaginare la disperazione di quella povera gente: abbandonare così immediatamente il paese dov'erano nati; dove tra stenti e sudori, avevano costruito la loro casa tra mille difficoltà, abbandonare questa, il bestiame, la campagna, granaglie, mobilio, biancheria, ogni loro avere; lasciare tutto in mano ai vandali, ai ladri... ai tedeschi: ah, era tremendamente penoso! Bisognava però sottomettersi. Chi vide e visse la disperazione, le lacrime, i pianti di quella povera gente, durante quei due giorni, non poté certo non piangere con loro. Così accadde anche a me e non vorrei certo rivivere quel dì. Era un interrotto correre da una parte all'altra con mobili, biancheria, mangiativa ed altro, per nascondere nelle cantine,nei sotterranei... ma a che scopo? Per porre questa loro roba in balia dell'umidità... dei topi... dei vandali soprattutto. Questi infatti, non appena la gente se ne fu andata, cominciarono a forzare le porte per arrangiarsi a loro piacimento e fra questi non mancarono anche coloro che erano stati assegnati al buon ordine cioè alcuni gendarmi.
Per chi sale la nostra caserma era sulla destra della strada principale, mentre quella dei gendarmi era posta a sinistra, quasi di fronte. Sulla strada già stava una successione di piccoli carri a due ruote (broz) aggiogati a delle vacche, su cui stavano dei vecchi impossibilitati ad andare a piedi, perché ammalati. Dietro seguivano i nipotini, quali a piedi,quali in braccio alle loro mamme, che non cessavano di piangere e di stringere al seno i loro bambini. Era una scena talmente commovente che Redolfi e io, mentre stavamo al balcone ad osservare, non potevamo fare a meno di commiserare quegli infelici e piangere con loro. Quando la lunga fila di quei poveri carriaggi, di quei vecchi ammalati, bambini e mamme, stava lentamente avviandosi verso un loro destino incerto ed ignoto e quella faticosa lentezza sembrava ostentata e probabilmente voluta, come di chi non riesce a distogliere lo sguardo, i pensieri, il cuore dalle cose che gli li sono state immensamente care, ecco improvvisamente uscire dalla caserma, come forsennato e con la sciabola sguainata, il summenzionato gendarme e lo sentiamo gridare come inferocito: “Via di qui: spioni, ladri, figure sporche di vermigliani! Avete fatto la spia, per troppo tempo!Via, via se non volete provare l'acciaio della mia sciabola!”
Quella povera gente intanto si avviava verso il suo fatale destino, senza reazioni, senza parole ma con una enorme amarezza in cuore. Io e il collega Redolfi, assistemmo angosciati a quel tristissimo esodo mandando in cuor nostro un mondo di imprecazioni al gendarme inumano. A poco a poco la colonna di profughi scomparve alla nostra vista, ma la mia mente ebbe presente per giorni l'immagine di quei poveri migranti che con i loro piccoli involti, contenenti lo stretto necessario, se ne andavano verso Vienna, nel campo di concentramento di Mitterndorf … Le infinite miserie per fame, malattie e maltrattamenti furono tali che ben cinquecento e più non fecero più ritorno e quando finalmente dopo oltre tre anni venne il giorno tanto atteso della pace, quelli di Cortina e Pizzano trovarono le loro case semidistrutte dalle fiamme... ..."

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Questo forte è ancora là, in alto sopra la valle, minuscolo ma ben individuabile, a ricordo del doloroso periodo bellico, quasi ad ammonirci sulla necessità di vigilare, di scegliere con molta cautela i “potenti” che ci governano, di evitare i “falsi profeti”... E’ ancora là per esortarci a ricercare sempre e irriducibilmente soluzioni pacifiche alle contese per non trovarci travolti da tragedie simili a quella che ci coinvolse cento anni fa.