Sulle alte praterie del Parco dello Stelvio









E' inevitabile quasi fatale! Anche quest'anno la mia ormai irriducibile “passione” mi porta a salire, a dire il vero con sempre maggior fatica, sugli alti pascoli della Val del Monte, nel Parco Nazionale dello Stelvio, per controllare la presenza e la posizione dei cervi, nell'attesa di poterli scrutare più avanti, tra pochi giorni, nelle loro autunnali ardenti esibizioni.




Siamo al termine della prima decade di settembre e quindi siamo vicini al periodo degli amori che vede gli instancabili maschi indaffarati a raccogliere e raggruppare le femmine, a controllarle e proteggere dalle avance dei rivali ma sarà solo nei prossimi giorni, a cavallo tra i mesi di settembre e ottobre, che si potranno udire i possenti bramiti dei cervi dominanti diffondersi per l'intera valle...



Ma purtroppo i bramiti arriveranno quasi esclusivamente dai boschi e dai pascoli compresi dentro i confini del Parco dello Stelvio. Quasi esclusivamente. Si perché solo nel Parco dello Stelvio la presenza del cervo ha raggiunto una densità adeguata, mentre nelle zone limitrofe, soggette ad una intensa pressione venatoria (atta a soddisfare una “passione” ben diverse dalla mia ed i ben consolidati interessi economici ad essa connessi) la presenza del cervo è sicuramente molto più contenuta.





Strana situazione quella che via, via si è venuta a creare nella nostra valle. Molti anni fa ho potuto assistere al ritorno del cervo nella nostra valle ed al suo successivo insediamento a spese purtroppo del suo piccolo competitore, il capriolo, un tempo numerosissimo e ora ridotto ad un ruolo decisamente secondario, un ruolo di semplice comparsa.

Ho poi assistito alla esplosione demografica del cervo che nel Parco ha raggiunto, in assenza di predatori selvatici, una densità al limite della sopportazione per l'ambiente sia boschivo che agricolo. Una densità eccessiva che stava compromettendo la normale crescita del bosco, la sua rinnovazione, la riproduzione delle essenze forestali, i raccolti dei prati e delle campagne coltivate e soprattutto il benessere, le salute, il normale sviluppo della stessa popolazione del cervo e degli altri ungulati. Poi la grande nevicata dell'inverno 2008-2009 ha risolto il problema... per il momento. La natura ha provveduto a ristabilire il giusto equilibrio eliminando la maggior parte dei cervi senza l'artificioso intervento venatorio che sembrava ormai inevitabile.




Oggi la consistenza numerica del cervo nel Parco sembra nuovamente in costante aumento (grazie anche alle ultime stagioni climaticamente molto favorevoli per la sopravvivenza e la riproduzione di questo ungulato) pur rimanendo, per ora, ancora molto lontana da quella di un tempo. Una consistenza probabilmente ancora compatibile con l'equilibrio complessivo dell'ambiente Parco.




E oltre i confini del Parco? Nelle zone aperte alla caccia? I cervi certamente ci sono ma il loro numero e la loro visibilità sono stati e tuttora sono molto contenuti da una pressione venatoria che oso tranquillamente definire eccessiva. Sono infatti convinto che i versanti boscosi della valle potrebbero tranquillamente ospitare un numero maggiore di cervi senza sconvolgere l'equilibrio ecologico del nostro territorio .




Quanto detto vale a maggior ragione per un altro ungulato, il capriolo, già in grande difficoltà dopo l'insediamento del cervo e la sciagurata immissione (da parte del fanatismo venatorio e limitata fortunatamente solo ad alcune zone), del muflone, specie certamente non autoctona. Così la popolazione del capriolo, tra cacciatori, cervi, e mufloni è ormai ridotta ai minimi termini è bene sarebbe interrompere le catture di questo piccolo ungulato, almeno per un certo periodo.


Non sono un esperto di gestione della fauna selvatica ma il buon senso e la lunga familiarità con il bosco e la montagna mi suggeriscono che qualcosa non va. Nelle aree protette del Parco, l'uomo non può intervenire (sostituendosi con prelievi mirati ai predatori selvatici, “da sempre” assenti anche nel bel Parco) nel limitare l'abnorme crescita delle popolazioni di ungulati (soprattutto di cervi) il cui controllo è ”affidato” esclusivamente ai negativi andamenti meteorologici invernali e primaverili, sempre più rari con il cambiamento climatico in corso e il conseguenti aumenti delle temperature e attenuazioni delle precipitazioni nevose.


Al contrario all'esterno del Parco viene esercitata una pressione venatoria decisamente eccessiva, una pressione che limita oltremodo la presenza degli animali selvatici in un territorio che ne potrebbe ospitare molti di più rimanendo comunque in equilibrio anche in assenza dei grandi predatori. Tutto questo a causa di criteri di prelievo, a mio giudizio, alquanto opinabili, che sembrano orientati più a soddisfare il remunerativo “diletto” dei cacciatori che la ricerca di un armonioso equilibrio ecologico... criteri che appaiono più orientati a soddisfare l'interesse di chi sfrutta economicamente la pratica della caccia che indirizzati al conseguimento di un corretta proporzione numerica nelle e tra le popolazioni di animali selvatici. Così a me sembra...


Soluzioni? Difficili, quasi impossibili... Illusorio modificare la “mentalità” dei cacciatori e i conseguenti sistemi con cui si svolge la secolare, tradizionale consuetudine della caccia nei nostri territori. Difficile pensare che la “caccia” sostanzialmente (anche se non dichiaratamente) vissuta dalla maggioranza dei praticanti come soddisfazione di una (primitiva) “passione”, come un'avventura in cui primeggiare, come la ricerca di un bel “trofeo”, come un infantile gioco a guardie e ladri, sostanzialmente come un diletto (l'ho appurato nei miei numerosi occasionali colloqui con i cacciatori... dove si ha la netta sensazione che il parlare di “gestione delle risorse faunistiche” diviene spesso, da parte loro, solo un alibi pretestuoso)...



... che la “caccia”, dicevo, possa in futuro venire intesa semplicemente come un'azione utile, un'attività molto spiacevole (uccidere non è certo un diletto) ma purtroppo necessaria in talune situazioni (si auspica rare situazioni), una pratica quasi di volontariato da utilizzare in circostanze straordinarie ma comunque una pratica indispensabile per ricondurre una popolazione selvatica nei limiti numerici compatibili con l'ambiente e con la sua stessa sana sopravvivenza (mi piace dire un'azione paragonabile allo spegnimento di un incendio da parte del pompiere volontario...).



Limiti numerici di tutte le popolazioni di animali selvatici, non solo di ungulati, limiti compatibili con l'equilibrio ecologico del territorio, limiti che sui nostri monti sono ben più alti degli attuali, almeno a parer mio... Sì, sui nostri impoveriti monti... dove la concentrazione di animali selvatici è sempre più scarsa, ridotta sia da una eccessiva antropizzazione legata al turismo, sia dalla necessità di soddisfare l'appetito delle lobby dei cacciatori, produttori e commercianti di armi, binocoli, cannocchiali e accessori vari.


E poi... e non è una provocazione, perché non applicare i criteri del mantenimento di un corretto equilibrio ecologico con dei prelievi ben studiati anche dentro i confini del Parco? Anche all'interno del Parco dello Stelvio mancano infatti i predatori selvatici, l'equilibrio naturale è stato alterato, e quindi inevitabilmente si creano degli squilibri che l'uomo moderno dovrebbe tentare di correggere. Non starò quindi a scandalizzarmi se un giorno, spero molto lontano, si dovesse intervenire anche nel Parco, abbattendo (ma molto meglio prelevando ed esportando in altre zone) un certo numero di selvatici.



Sono ben altre le iniziative che ritengo veramente scandalose dentro i confini del Parco... Penso all'eccessiva occupazione e antropizzazione dei suoi preziosi ambienti con insediamenti, piste da sci impianti di risalita fino ai 3000 m di quota... Un Parco non è un vero Parco solo perché non vi si pratica la caccia... troppo semplice, troppo riduttivo! Un Parco così elementarmente inteso rischia di diventare solo una bella etichetta, un vuoto insieme di slogan con cui attrarre ignari e inconsapevoli visitatori, rischia di diventare un simulacro di Parco al servizio esclusivo degli interessi legati al turismo di massa. 




Solo con il ritorno (naturale o guidato) dei predatori, del lupo (che forse un giorno non lontano potrebbe arrivare da solo) e della lince, e poi delle aquile che oggi mi sembrano meno numerose di un tempo... si potrebbe forse ristabilire un più corretto equilibrio naturale ed evitare così ogni intervento da parte dell'uomo. Ma quanti problemi si creerebbero... quanti problemi sul territorio abitato, quanti problemi con gli allevatori... 



Pensavo di raccontare del mio incontro con i cervi sui versanti della Val del Monte nel Parco dello Stelvio ma mi sono lasciato prendere la mano e ho parlato d'altro... Ho parlato a ruota libera di caccia, di gestione della fauna, all'interno del Parco e fuori dai suoi confini... con una serie di soggettive considerazioni, opinioni personali e qualche provocazione che probabilmente al lettore interesseranno ben poco.

Lascio comunque alle mie fotografie il compito di dire, al posto mio, dell'incontro con i cervi nel bel Parco, durante la mia escursione in Val del Monte, alla fine della prima decade di settembre.



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Passeggiate di fine estate


Passeggiate di fine estate dopo la pioggia della notte, brevi sgambate sulle stradine del fondovalle immerso nelle nebbie settembrine, tra boscaglie inzuppate d'acqua e prati lucenti ai primi raggi del sole.







Salubri camminate al limitare delle selve, nell'aria umida e fresca del mattino, dopo lunghe settimane di opprimente, siccitosa e torrida estate.






Distensive scarpinate sotto un'ultima inconsistente pioggerella, tra nubi in dissoluzione e nebbie che dal piano risalgono i versanti della valle.





Passeggiate nel pallido chiarore diffuso dai raggi di un sole velato, raggi deboli e discontinui ma pronti a sconfiggere l'ostinata bruma mattutina. Passeggiate con il sole malato che, ancora avvolto in persistenti vapori, sfiora delicatamente i villaggi sugli erti pendii della valle....






…sole fiacco che filtra instabile tra le nubi accarezzando erbe e cespugli fradici d'acqua lungo il margine della stradina.






Sole che finalmente vince, che vince risplendendo sempre più deciso in un cielo sempre più limpido. Sole che ravviva il prato con il suo gocciolante groviglio verde...





…E le gocce risplendono ai raggi radenti. Brillano sul colchico autunnale, il tossico fiore che colora di rosa la fine dell'estate e brillano anche sul rosso trifoglio che tremolante, mosso da un lieve venticello, sembra in attesa, un'attesa paurosa, dell'ultimo sfalcio.






Nell'aria ormai tersa il sole colpisce, impatta sfavillante sulle mille erbe del prato. L'acqua risplende sul fiore grondante delle ultime erbe del cucco...







...e brilla sulla rustica, ispida e setolosa pianta di buglossa comune, brilla sui suoi carnosi e scuri fiorellini blu-violacei, rendendoli quasi traslucidi.






La forte pioggia del giorno precedente e della notte non ha inzuppato solo il prato, ha infradiciato anche il bosco. Bosco che ora, intiepidito dal sole e mosso dalla brezza, si sta rapidamente asciugando.







Ma le perle d'acqua sulle bacche del sambuco nero persistono e scintillano ai raggi del sole già alto nel cielo...







...e le foglie della piccola betulla sono ancora bagnate, lucide e umide riverberano la pallida luce filtrata dalle fronde degli abeti.







In una vasta radura, sullo sfondo tenebroso della selva, spiccano le candide infiorescenze delle ombrellifere...






...e tra le graminacee, impreziosite da minuscoli brillantini d'acqua, si levano i rigidi, rinsecchiti steli autunnali di irriconoscibili piante con i loro inquietanti frutti, ormai esplosi, aperti e privi di semi.







Sul bordo della mulattiera che taglia il bosco, gli ammassi di felci giganti ancora grondanti di pioggia luccicano ai raggi di un sole ormai alto e potente...
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..raggi che nel bosco più fitto e scuro bucano le fronde creando nell'ombroso sottobosco isole di luce sul tappeto di aghi d'abete...





...mentre nel bosco più aperto i raggi riscaldano e asciugano funghi e piccole felci.
Esplorare ogni angolo, arrancare lungo la scarpata, alla ricerca di composizioni, forme e colori che la pioggia della notte ha arricchito e il sole fa risplendere.






E infine camminare ancora, sulla via del ritorno. Abbandonare lentamente l'abetaia, sorpresi alla vista del nero scoiattolo in rapida fuga e incantati dai giochi di luce sulle foglie dei noccioli ai margini del sentiero.





Imboccare il viottolo che attraversa i prati, la stretta stradina ombrosa racchiusa tra due filari di alte latifoglie, un ombroso tunnel di foglie dove il sole penetra a fatica illuminando, di tanto in tanto, solo qualche fortunato ramoscello frondoso.



Uscire all'aperto, sul fondovalle, sugli ampi prati coltivati rischiarati dal sole, mentre le ultime nebbie risalgono i fianchi dei monti, incappando nelle cataste di legna da ardere, nei massicci polloni ben ammucchiati dal boscaiolo, pronti per essere trasportati in paese. Dalla massa sporgono dei sottili rami di nocciolo con le foglie morte, accartocciate ma ancora ben appese. Foglie umide per la pioggia notturna, foglie dai colori intensi, brillanti e vivaci se osservate in controluce... Foglie artificiosamente autunnali. Foglie che insinuano... inevitabilmente... che l'estate è alla fine.

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Al Lago delle Malghette



Quasi una gita “fuori porta”, oltre la “frontiera”, oltre i “margini” della Val di Sole... Ma quasi, solo quasi, perché a ben guardare la mia meta si trova sul confine che divide la Val di Sole dalla Val Rendena... Infatti come ho potuto appurare con una, a questo punto, “obbligatoria e diligente ricerca” (si fa per dire) il Lago delle Malghette e i suoi dintorni rientrano amministrativamente in due Comuni solandri, Dimaro e Commezzadura e in un Comune rendenese, il Comune di Sella Giudicarie (ex Breguzzo). Inoltre le carte topografiche mi rivelano (se mai ce ne fosse bisogno) che la conca del Lago delle Malghette, l'intero suo bacino idrografico, riversa le acque nel Torrente Meledrio affluente del Noce, per antonomasia "il" fiume solandro. Quindi tutto regolare e i “4 passi” che mi appresto a descrivere calcano, ancora una volta, una terra (in gran parte) “appartenente” alla Val di Sole... Tutto questo perché i “limiti” non vanno mai superati...
E dopo la indispensabile quanto banale premessa eccomi finalmente in cammino lungo la lunghissima, comoda ma noiosissima strada bianca, chiusa al traffico veicolare (escluse le serate estive, fino alla mezzanotte, perché i rustici ristoranti di montagna devono pur lavorare...) che, distaccandosi dalla strada statale poco prima di Passo Campo Carlo Magno, conduce nei pressi della ex Malga di Vigo, sulla brulla spianata di partenza degli impianti di risalita Express Genziana e delle Malghette (dove fervono i lavori di rifacimento della seggiovia e realizzazione di una nuova enigmatica costruzione) e d'arrivo delle relative piste da sci che collegano la val di Sole (Marilleva, Daolasa, Folgarida, con Campo Carlo Magno, Madonna di Campiglio, Pinzolo). Ma ora, finalmente, dopo l'interminabile e anonima sgambata nel folto del bosco, il panorama si apre sulle cime, al di là degli alberi che le celavano. Un ultimo sforzo su di un ripido, battuto sentiero e sbuco improvvisamente sulla riva del Lago delle Malghette accanto all'affollatissimo edificio adibito a bar e ristoro alpino.
E' l'ultimo giorno d'agosto, la stagione turistica estiva è agli sgoccioli, ma le sponde del lago sono ancora molto affollate di gitanti che affrontano volentieri la lunga passeggiata, anche in compagnia dei piccoli bimbi, pur di ammirare questo stupendo specchio d'acqua sullo sfondo delle dolomiti di Brenta. C'è chi, come me, ha raggiunto il lago da Campo Carlo Magno ma anche chi è calato dall'alto, seguendo il sentiero o magari la pista da sci, che scendono dalle creste del Monte Vigo, dagli alberghi detti rifugi Orso Bruno e Solander, raggiunti con telecabine o seggiovie dal fondovalle solandro. Costoro dovranno ben presto affrettarsi a risalire per fare ritorno nei centri abitati della Val di Sole prima della chiusura degli impianti a fune.
Avanzo lungo le rive e, curioso come sono, raggiungo la Malga di Piano di Commezzadura, posta poco a monte sul versante orografico sinistro del lago. Sono poche decine di metri ma manca un sentiero degno di questo nome; c'è solo una traccia, appena visibile, quello che rimane del vecchio percorso ora invaso da ortiche e altre erbacce. Una ennesima bella malga abbandonata e cadente... Sembra quasi che questi antichi edifici per sopravvivere debbano necessariamente essere trasformati in bar, balere, discoteche, tavole calde, ristoranti,... che, spesso travestiti di finta agreste rusticità, rievocano nell'architettura complessiva e negli arredi (quasi a commemorare, spudoratamente) la dura vita di un passato non molto lontano.
Proseguo il mio cammino attorno al lago cercando di evitare i percorsi più frequentati. Imbocco un sentierino poco battuto (scoprirò poi che sale fino ai “3 laghi”) che si diparte dal tracciato principale nel punto in cui un rio si riversa nel lago e lo seguo salendo tra abeti, larici e cembri per poche centinaia di metri. Superato il bosco esco come d'incanto in una vasta “plaga” pianeggiante e paludosa. E' una sorpresa, è davvero uno spettacolo inatteso... la vista si apre improvvisamente su di una zona molto particolare...
Un raro biotopo alpestre (siamo a circa 1950 m slm), una zona umida, una torbiera ricca di erbe palustri e di sfagni nella quale non è il caso di addentrarsi più di tanto. La costeggio a lungo rimanendo però sul bordo del bosco. Alcuni rii, profondi e ricchi di limpidissima acqua, l'attraversano sinuosi dividendosi e riunendosi in più rami. Dei piccoli salmerini alpini vi nuotano tranquilli ma al mio apparire subito si rifugiano con un guizzo nelle pozze scure lungo i margini infossati dei ruscelli. Bella e selvaggia questa località, un tempo molto lontano sicuramente coperta dalle acque di un vastissimo lago... bella, deserta e naturalisticamente interessante, certamente molto più pittoresca e varia del frequentatissimo lago sottostante....
E' ora di rientrare, Mi attende un lungo monotono cammino sulla strada bianca che porta a Campo Carlo Magno. Prima però ripercorro la sponda sinistra del lago ed è un vero piacere con il sole che inizia ad abbassarsi ravvivando di calde tonalità le biancastre Dolomiti di Brenta e il già rossastro Sasso Rosso. Una leggera brezza increspa le acque che sfavillano in controluce sullo sfondo scuro, già parzialmente in ombra, dei boschi e delle creste granitiche del gruppo Adamello Presanella. Gli ultimi gitanti stanno lasciando le rive del lago. Pian piano ritorna il silenzio e, con l'avvicinarsi della sera, cala sul lago una malinconica pace. Si prospettano magici momenti. E' un peccato dover scendere a valle proprio adesso...



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Castel San Michele al levar del sole



       Ieri


Tra Ossana e Fucine, a monte del torrente Vermigliana, si è fatta pulizia. Tecnici ed operai del Servio Forestale della Provincia hanno lavorato alacremente, per più mesi, sia di questo che dello scorso anno, per abbattere il bosco ripulendo totalmente da alberi e cespugli quelli che un tempo erano prati e campi coltivati e che, abbandonati, si erano del tutto inselvatichiti. Hanno anche allargato, dove possibile, le stradine e i sentieri che percorrono la zona, restaurato e ricostruito i muretti a secco che delimitano le proprietà private e i vecchi percorsi dimenticati. Quindi anche a Ossana, nei pressi del Castello di San Michele e lungo la strada del Sant in località Bacheta, si è voluto ripristinare, come in altre zone della valle, l'antico “paesaggio rurale” ormai rinselvatichito, totalmente compromesso dal sopraggiungere dei tempi nuovi, dall'arrivo della moderna economia che guarda ben poco all'agricoltura di montagna sedotta com'è, quasi esclusivamente, dalle mille attività legate al turismo.

Che dire? Un tempo non molto lontano si rimboschivano i terreni trapiantando larici e abeti nelle radure e al limitare dei pascoli e lo si faceva anche durante l' educativa “Festa degli alberi” delle scolaresche, oggi gli alberi si eliminano per ripristinare prati e campi che probabilmente nessuno con il tempo penserà più a curare. Quindi almeno alcuni di questi interventi che si susseguono in valle mi lasciano alquanto perplesso in particolare mi sconcerta quello portato a termine, in tempi lunghi e con costi pubblici notevoli, nella località in questione. E' pur vero che il taglio del bosco ha dischiuso alla vista un ampio panorama, un panorama che si apre a 180 gradi dal Tonale, alla Val di Pejo al Monte Peller, panorama prima celato dalla fitta vegetazione, ma è pure verissimo che percorrere i vari tratti della stradina del Sant, nell'ombra scura delle conifere o nella luce radente del tramonto, immersi in un tunnel di fronde luccicanti, (pioppi tremuli, betulle... e noccioli dove, a fine estate, scoiattoli e ghiandaie erano di casa), era, fino ad un anno fa, un piacevole, salutare e interessante svago ora certamente non più ripetibile... Cosi è... Ora così è e quindi, non senza un certo rimpianto per ciò che era, accogliamo la novità e approfittiamone... approfittiamo del nuovo aspetto della località “Bacheta”, che imita il paesaggio aperto del tempo che fu e godiamo della vista (dalla stradina del Sant ma anche più a monte, nei pressi del ponte della Poia sulla strada del Fil) del San Michele, l'antico castello finora celato dal bosco. Osserviamolo nell'ora magica del crepuscolo, negli attimi fatati dell'alba e della sera quando, dalle creste del Peller, laggiù in fondo alla valle, spunta il sole o si alza la luna...
Si sa che ad una certa età si dorme poco e che una volta svegli si fatica non poco a riaddormentarsi spesso sopraffatti da sogni o “pensieri” ripetitivi non sempre piacevoli. Così conviene abbandonare le lenzuola, rimettersi in piedi e dedicarsi a qualcosa di bello come la lettura, il lavoro al computer o, se il tempo meteorologico lo consente ai lavori nell'orto o nel giardino... ma vale pure la pena di mettersi in cammino lungo le stradine e i sentierini che tagliano i dintorni del paese. Ed ecco che la tranquilla inattività del borgo addormentato ti possono sorprendere, coinvolgere emotivamente... ti senti solo, l'unica presenza umana a questo mondo... Così, immerso nell'aria frizzane, lasci le vie deserte del villaggio e vaghi nella tenue luce del primo mattino camminando tra prati e boschi insonnoliti, scoloriti e spenti, senza una meta precisa nell'attesa che il sole inizi a rischiarare il paesaggio ravvivandolo e riportandolo in vita.

       Oggi







Ed è così che casualmente assisto al levar del sole dalla stradina del Sant. Ho con me, perché non si sa mai, la macchina fotografica e tento qualche impossibile scatto. Sono inesperto, non ho mai fotografato il sole, con la sua luce diretta e abbagliante e, al ritorno, i pessimi risultati confermano la mia totale incapacità.



Riprovo la mattina successiva utilizzando un vecchio obiettivo per reflex analogiche con un diaframma provvisto di un maggior numero di lamelle convinto di poter così ottenere un bel sole a stella. Peggio che mai... Il terzo giorno, siamo al 18 di agosto, ritento e finalmente mi riesce di ottenere qualche immagine da non cestinare. Ma non mi monto la testa, sono foto appena appena accettabili...e devo ringraziare le nubi che hanno parzialmente attenuato l'intensa luce del sole.




Qualche giorno dopo mi cimento nuovamente. E' il 23 agosto e anche oggi mi sono svegliato prestissimo quindi... tanto vale riprovare. In pochi minuti sono sul posto, al cospetto dell'imponente mastio del Castello di San Michele, e attendo pazientemente il sorgere del sole. Il cielo è sereno ma laggiù, ad est, verso la bassa valle dove sorge il sole, si addensano alcune lunghe e sottili nubi scure che tagliano l'orizzonte da nord a sud. Passano i minuti e le nubi a poco a poco si illuminano, si accendono. Sono nastri dorati che, a poco a poco, si compattano in un'unica, uniforme massa infuocata. Infine compare il sole che le buca decisamente inondando di luce la valle.
Scatto molte foto cercando un giusto equilibrio tra sensibilità, apertura del diaframma, tempi di posa ed una ragionata, sottoesposizione ma, giunto a casa, i risultati non mi soddisfano... L'indispensabile lavoro di post produzione è complesso e laborioso. Il rumore digitale dovuto probabilmente ad una eccessiva sottoesposizione (ma lo scoprirò troppo tardi, al termine della mia lunga campagna fotografica) è troppo alto e non dispongo degli strumenti adeguati per attenuarlo. Inoltre i troppi flares guastano le immagini e le poche lamelle del diaframma del mio obiettivo mi restituiscono un misera stella solare a sole sei grossolane punte. Mi rendo conto che il mio modesto zoom tuttofare non è certo l'obiettivo più adatto per una simile impresa e che sarebbe necessario l'apposito filtro per ottenere un sole a stella degno di questo nome.







Ritorno sul posto il 27 agosto. La giornata è serena ma una leggera foschia si addensa in fondo alla valle. Attendo predisponendo e regolando manualmente la mia reflex. Finalmente si leva il sole tra le nebbie dorate. Il punto in cui sorge si è di molto spostato rispetto ai giorni precedenti, è più a destra, verso sud e si avvicina sempre più al monte Peller.



La foschia sul fondovalle favorisce il mio lavoro attenuando la luce violenta di un sole che, quando spunta dalle creste dei monti è già alto sull'orizzonte e quindi molto luminoso. Nelle foto il contorno del disco solare risulterà abbastanza netto e i suoi raggi sufficientemente nitidi e definiti. Gli artefatti delle lenti saranno più contenuti... ma quanta fatica, soprattutto in post-produzione per ottenere solo qualche immagine appena accettabile e ancora troppo ricca di rumore digitale! Mi chiedo se valga la pena insistere.







29 agosto. Anche oggi c'è foschia ma meno compatta di quella dell'altro ieri. Il cielo è molto luminoso, ambrato, non solo in lontananza, sopra il profilo dei monti ma anche molto più avanti fino a coprire la media valle. Il sole ora sorge più tardi e si annuncia a lungo con un forte chiarore lungo le creste del Peller e spunta sempre più a destra, sempre più verso sud...


Al suo apparire mi sposto più volte, rapidamente, scegliendo punti di ripresa diversi . Percorro velocemente la stradina del Sant verso ovest fino al ponte della Poia, e così mi allontano sempre più dal castello, che resta comunque il punto focale, con il sole, delle mie immagini. La ricerca di nuove inquadrature si è rivelata una buona idea che, supportata dal mio paziente lavoro di post produzione, mi consente di ottenere alcune immagini complessivamente discrete nonostante gli ostacoli incontrati per l'eccessiva luminosità del sole, i limiti dell'attrezzatura fotografica e naturalmente la mia inesperienza in questo genere di fotografia.







Ultima uscita, almeno per ora, il 31 agosto. E' una giornata decisamente nebbiosa, la foschia sul fondovalle è densa e uniforme, una foschia quasi autunnale in grado di assorbire molta luce riducendo decisamente la brillantezza apparente del sole. Ho scelto come punto di ripresa il ponte della Poia e i suoi dintorni più prossimi, in modo da potere comprendere in qualche inquadratura anche le acque del torrente Vermigliana.


Fotografare con il sole offuscato è senza dubbio più semplice. E' meno complessa la scelta dei parametri di esposizione (ma anche qui troppa sottoesposizione...) e pure l'attività di post-produzione risulta meno laboriosa ma... ma, alla fin fine, le immagini così ottenute mancano d'intensità, di personalità... dicono poco... non hanno quei contrasti, quei giochi di luce e anche quel contenuto flare che contribuiscono a donare un fascino speciale, una particolare atmosfera agli scatti ben riusciti, agli scatti effettuati con il sole meno velato, molto più acceso. Ma gli scatti ben riusciti sono generalmente rari, il sole abbagliante li regala con parsimonia, talvolta per puro caso, soprattutto a chi lo fotografa solo di tanto in tanto... solamente quando all'alba lo coglie l'insonnia...



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