Quando, tra le nubi che si aprono, spuntano le cime della Val di Peio...


Passeggiata mattutina lungo la pista ciclo-pedonale che da Fucine di Ossana sale a Cogolo di Peio.


Sveglia di buonora e relativa alzataccia. Avevo programmato, con l'amico di sempre, una lunga escursione sui monti della Val di Pejo ma mi sa che dovrò rinunciare. All'aperto, oltre l'uscio di casa si sente profumo di pioggia, si respira aria di temporale. Il cielo è quasi interamente coperto. Foschi, densi e ampi nuvoloni lo oscurano minacciando tempesta. Il chiarore del giorno nascente è soffocato, si diffonde a stento, soprattutto laggiù, in fondo alla valle, dove sorge il sole. Che fare? Sono incerto ma poi la mattutina telefonata del mio mio amico mi toglie ogni dubbio. Meglio rimandare. Dove abita l'amico il tempo è ancora più brutto.


E ora? Tornare a letto? Non è proprio il caso. Ormai sono in piedi, ben sveglio e vestito di tutto punto. Un caffè e una veloce spuntino e sono pronto, deciso a non chiudermi in casa, costi quel che costi... 4 passi li voglio fare comunque, anche sotto la pioggia, se mai dovesse piovere.
Ed eccomi quindi in cammino, diretto al Forno di Noval, su di una pista ciclo-pedonale a quest'ora desolatamente deserta. Sono pimpante come non mai ma anche solo soletto nell'aria frizzante del primissimo mattino...Ho comunque con me il mio grande ombrello, fedele e sempre pronto a difendermi, anche questa mattina, se, dalla cupola grigia che mi sovrasta, dovesse scatenarsi il finimondo.


Le nubi sono sempre più cupe, oscurano il cielo, nascondono i monti e, scendendo lungo i ripidi pendii della valle, avvolgono boschi e pascoli fino ad accarezzare i paese sui versanti della montagna. Panorama suggestivo nella sua mattutina opacità per non dire nella sua tetraggine.


Panorama che però, seppure molto lentamente, inizia ad evolvere. Mentre avanzo, avvicinandomi sempre più agli isolati edifici del Forno (Forno perché un tempo molto lontano ospitavano un grande altoforno per la fusione del minerale ferroso proveniente dalle miniere di Comasine) osservo, con una certa sorpresa, che i nuvoloni che mi sovrastano non sono poi così compatti come mi erano apparsi nella semioscurità dell'alba.


Le nubi, qua e là, iniziano a dissolversi lasciando intravedere un tenue chiarore. In alto, oltre i tetri e compatti nebbioni che ancora oscurano la valle, il cielo è limpido, è sereno: non ci sono altre nuvole...


A poco a poco ritorna il sereno anche sopra le cime della Val di Peio. Il sole del primo mattino inizia a rischiarare le nubi più alte. I primi raggi raggiungono le vette, le vette del Taviela e del Vioz, illuminando le rocce rossicce e il biancore della neve: è segno che anche ad oriente il cielo è sgombro, che il mare di nebbia si sta aprendo, che forse si sta dissolvendo, svanendo lentamente nel nulla.


I nuvoloni si schiudono sempre più, le cime si ergono oltre il fitto nebbione che ancora copre i pendii sottostanti, la media montagna, poco a monte dei centri abitati. Luce sulle cime e ombre ancora compatte sui bassi versanti e nel fondovalle.


Raggiunto il Forno decido di rientrare. Ormai è giorno fatto e tra breve il sole accarezzerà i boschi e i prati che mi attorniano. Dietrofront, mi avvio verso casa , in compagnia del mio ombrello, rivelatosi del tutto inutile.


Aria fresca e profumata, panorama suggestivo in costante divenire, pace e silenzio: una bella passeggiata del tutto imprevista, fortuita... una passeggiata sicuramente bella e salutare ma da considerare solo un surrogato dell'escursione che avevo programmato, che pensavo di poter portare a termine assieme al mio amico. Peccato, perché ora il tempo volge decisamente al bello. Decisamente ma soprattutto inaspettatamente verso i bello. Se non fosse stato per qui nebbioni che apparivano ingannevolmente scuri e compatti nel tenue chiarore del primissimo mattino ora mi troverei da tutt'altra parte...



Altre foto in “Google Foto



Sulla montagna di Peio: Malga Saline, Seroden, Pian di Vioz, Tarlenta, Covel


Un itinerario ad anello, nel Parco Nazionale dello Stelvio, con partenza ed arrivo a Peio Paese, non preventivamente pianificato ma deciso di tratto in tratto, lungo il percorso.




Malga Saline.
Di buon mattino mi dirigo, con l'amico di sempre, verso Malga Saline. Prendo la “via” che, in tempi molto lontani, mi conduceva al Rifugio Mantova al Vioz. Non c'era alternativa, non esistevano gli impianti a fune che oggi abbreviano di molto la camminata verso quella meta. Allora, superato il colle di San Rocco, poco a monte dell'abitato, si saliva fino alla malga per uno viottolo che, se ben ricordo, era più erto e più stretto della strada forestale che l'ha sostituito. L'ambiente che si attraversava era comunque uguale a quello di oggi. Da allora ben poco è cambiato. Prati falciabili (all'inizio, lungo il “Percorso dei Picchi”), boschi di conifere e infine estesi pascoli attorno alla malga. Profumi antichi, di fieno, di muschio, di resina, di erbe e fiori alpestri e di genuino stallatico. “Profumo” di territorio antropizzato ma con equilibrio, nel rispetto dell'ambiente montano e delle sue risorse.
Quando, lasciata la malga, il sentiero sbuca all'improvviso sulle praterie di Seroden, il “profumo” cambia decisamente.... Quassù si respira un “profumo” ben diverso, un “profumo” che sa di luna park... E' lo stesso “profumo” che pervade quasi tutte le odierne stazioni turistiche invernali dove, in tempi brevissimi, l'antico ambiente alpino è stato snaturato per adattarlo all'andirivieni degli “sportivi” con gli sci ai piedi (taglio del bosco, morfologia del terreno alterata: piste e strade a dismisura, scavi e riporti di terra, livellamenti... inserimento nel paesaggio naturale di manufatti a lui estranei: stazioni, e piloni di sostegno degli impianti a fune, cannoni da neve, reti di contenimento, edifici di servizio, bacini artificiali...e chi più ne ha più ne metta). Ovunque ci sia “questo” turismo invernale le cose stanno così e così probabilmente staranno finché il cambiamento climatico lo consentirà, finché consentirà loro di sopravvivere... Un turismo “diverso”, ambientalmente più responsabile e sostenibile è di là da venire... se mai verrà.




Seroden – Sas de le Strie.
Ma qui siamo in un Parco Nazionale e, a mio parere, la gestione del territorio di un Parco Nazionale, non dovrebbe essere devoluta, come accade altrove, in situazioni meno protette, a chi punta solo al conseguimento di obiettivi economici ricchi e immediati ma decisamente deleteri per l'ambiente. Si potrebbe ragionevolmente ritenere che sia compito primario del Parco farsi artefice di una sviluppo turistico “diverso”, alternativo, poco invadente, più responsabilmente compatibile con la salvaguardia del “suo” territorio. Purtroppo ciò che vediamo quassù, su i pendii di Seroden e sulla dorsale del Filon degli Uomini, sembra dimostrare come anche in un Parco Nazionale sia estremamente complicato modificare l'attuale orientamento dell'economia turistica che evidentemente riesce a promuovere, anche qui, le proprie funeste scelte. Scelte, a parer mio, ambientalmente poco sostenibili, ambientalmente dannose (basta solo guardarsi attorno e non aggiungo altro). Scelte promosse (se non imposte) da “impiantisti ed affini”, sostenute da amministratori e politici (superfluo indagare sulle motivazioni) e naturalmente da una buona porzione della popolazione che purtroppo non vede sbocchi lavorativi alternativi a quelli offerti dagli stessi promotori, “impiantisti ed affini”. Scelte avvallate (sempre a pare mio) da valutazioni di impatto ambientale sorprendentemente positive. Scelte i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti. Scelte che si sono concretizzate, qui a Seroden, con l'apertura di un ulteriore tratto di pista servito da un nuovo impianto di risalita (in sostituzione di una breve e obsoleta sciovia) a riqualificazione e potenziamento, in compagnia della nuova, acrobatica funivia “Pejo 3000”, della skiarea di Pejo. Una skiarea che cartograficamente si sovrappone (nella sua totalità?) alla zona di “promozione economica e sociale” prevista nelle “zonizzazione” del Parco.
Non esistono altre strade per promuovere l'economia del posto? Sono indispensabili opere così invadenti? Opere che sono pure visivamente impattanti, anche se viste da lontano, anche se guardate dal fondovalle (un brutto biglietto da visita per chi si reca in un Parco Nazionale ritenendolo un'isola ambientalmente tutelata).
Dimenticavo. Nei pressi della stazione motrice del nuovo impianto di risalita, all'interno di un largo tornante della pista da sci che scende a Tarlenta, si trova un grosso masso a coppelle. E' il “Sas de le Strie” (sasso delle streghe). Così si legge sull'insegna in legno che ne indica la presenza.
Però null'altro si legge. Solo una essenziale, misera iscrizione senza alcun chiarimento, senza alcuna delucidazione sull'origine e sul seppure incerto significato delle coppelle. Ma si sa... oggi ciò che importa veramente, ciò che vale, sono solo le piste da sci e i relativi impianti di risalita... Quel povero masso coppellato, con le coppelle ripiene di terra proveniente della strada polverosa e per di più monco di alcune sue parti (asportate, alcuni anni fa dalle ruspe intente a spianare il versante per ricavare le belle piste), conta ben poco... e purtroppo sembra contare poco anche per il Parco...




Rifugio Doss dei Cembri – Pian di Vioz.
Proseguiamo. Scegliamo di percorrere la pista da sci (in estate per gran parte una strada sterrata di servizio) che sale allo pseudo-Rifugio Doss di Cembri. In alternativa potevamo discendere, percorrendo la stessa pista ma verso il basso, fino a Tarlenta (la località al centro della skiarea di Pejo, dove confluiscono cabinovia, funivia e seggiovie) ma la curiosità ci ha spinti verso l'alto, verso il Pian di Vioz, zona che da molti anni non vedevamo (controllavamo?). E bene abbiamo fatto perché questa ulteriore salita ha confermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, le nostre iniziali valutazioni.
Ma veramente ci trovavamo all'interno di un'area protetta? All'interno di un Parco Nazionale? Di un Parco naturale? Lo sconquasso provocato da piste e impianti (in verità non tutte di recentissima realizzazione) ci appariva sempre più incompatibile con quella che ai nostri occhi doveva essere la corretta gestione di un territorio istituzionalmente tutelato, salvaguardato nella totalità delle sue peculiarità ambientali, dal paesaggio alla morfologia del terreno, dalla fauna alla flora, dalle caratteristiche pedologiche, a quelle geologiche e idrologiche...
Il danno ambientale ormai è fatto, ma... la popolazione trova di che campare e il Parco sopravvive comunque, anche in questa zona, costretto (se si vuol pensar bene) a continui compromessi che di volta in volta ne snaturano alcuni lembi... Il Parco è grande e molte altre zone, si conservano bene anche se alcune recano le inevitabili antiche ferite inferte dalla produzione di energia idroelettrica (energia comunque pulita, energia rinnovabile).
<<Il Parco cerca di difendersi, fa quello che può (sempre se si vuol pensar bene...)>> Questo ci diciamo, tra il serioso e l'ironico osservando i teli di contenimento lungo la pista, teli ben avvolti, in alto, sui loro sostegni metallici. Sono teli scuri (verde scuro?) che hanno sostituito quasi ovunque le visivamente impattanti reti rosse che un tempo addobbavano l'intero versante orlando tutte le piste. “Interventi di mitigazione” (imposti dal Parco?) tendenti a limitare, per quanto possibile, i danni, gli oltraggi al paesaggio. Interventi mitigatori analoghi a quelli che caratterizzano le sponde del laghetto artificiale di Pian di Vioz, invaso realizzato per alimentare l'artificioso innevamento invernale dei campi da sci (i cannoni “sputaneve” ormai ovunque indispensabili con il mutare del clima). Bel laghetto, ma laghetto fasullo, coronato da massi che ne vorrebbero mascherare l'innaturalità ma che, disposti così ordinatamente come sono, finiscono per ottenere l'effetto contrario. Va bene comunque, sempre meglio di niente...




Tarlenta.
Lasciamo alle spalle il piccolo specchio d'acqua e discendiamo verso Tarlenta per uno stretto e a tratti ripidissimo sentiero. Percorrendolo riusciamo finalmente a guardarci attorno, in tutta tranquillità. Possiamo finalmente scrutare il fondovalle, i lontani gruppi montuosi dell'Adamello-Presanella e del Brenta e, alle nostre spalle, le vette del Vioz, del Taviela e Cadini. Non siamo più assillati dai funesti pensieri suscitati dall'invadente interferenza visiva delle stazioni e dei piloni di sostegno degli impianti di risalita e, ovunque, di strade e di piste da sci... In primo piano solo rade boscaglie di larici e cembri, ripidi pittoreschi pendii erbosi, cespugliose macchie di rododendri in fiore. Bello.
Il sentiero sbocca sulla pista che scende dal Doss dei Cembri. Siamo ormai prossimi a Tarlenta al centro della skiarea del Parco, densa di funi e manufatti vari.
Non la raggiungiamo. Ci fermiamo a distanza regalandoci una lunga sosta e un indispensabile spuntino.




Covel.
Dalla piazzola della nostra pausa un sentiero scende alla piana di Covel. Lo prendiamo e in breve raggiungiamo la bella, bucolica spianata che nulla a che a vedere con quanto abbiamo visto ultimamente. Se non fosse per il forte ronzio provocato dallo scorrere della funivia di Pejo 3000 che, con frequente intermittenza, ci distrae e ci infastidisce, ci potremmo sentire in un piccolo paradiso terrestre. Estesi prati falciabili, racchiusi tra ripidi pendii boscosi, una cascata in questo periodo particolarmente ricca d'acqua, un piccolo pittoresco specchio d'acqua del tutto naturale. Un paradiso... un paradiso terrestre, un paradiso che è comunque ben lontano dalla sua primigenia naturalità. Pure questo è un ambiente antropizzato, piegato alle esigenze umane ma... con misura. E' un ambiente che l'uomo ha modellato e valorizzato con un lavoro secolare, che ha modificato lentamente, adeguandolo alle sue sue necessità, con interventi continui ed equilibrati per non intaccare e compromettere il patrimonio naturale...




Malga Covel – Ritorno.
A Covel in una posizione leggermente sopraelevata rispetto alla pianeggiante distesa di prati si trova una piccola malga. E' la malga delle capre. Tre rustici edifici (credo ristrutturati dall'ente Parco, con una azione encomiabile come molte altre) adibiti a ricovero estivo di un gregge di capre. Interessante attrattiva, malga e capre, per il turista interessato agli usi e ai costumi locali, alle attività tradizionali della sua popolazione... e le capre le incontriamo pure noi. Sono al pascolo in un rado lariceto ai margini della piana di Covel.
Siamo sulla via del ritorno, ci troviamo sulla strada bianca che scende a Peio Paese. Sotto di noi il versante degrada rapidamente verso Pejo Terme. Le piccole cabine dell'impianto a fune che dal fondovalle salgono a Tarlenta scorrono in continuazione sopra i prati del pendio. Alcuni contadini sono al lavoro, stanno ammassando il fieno sul rimorchio del trattore. Immagine curiosa ma suppongo non inusuale. Immagine di attività economiche molto diverse tra loro (agricoltura e turismo) ma che possono, o meglio dovrebbero non solo convivere ma pure integrarsi se condotte senza prevaricare, con moderazione, con grande rispetto, soprattutto per l'ambiente che le accoglie e che le sostiene.



Guarda tutte le foto in “Google Foto





Il "Giof" dei miei ricordi


Molto tempo fa, nella ristretta cerchia dei parenti e dei conoscenti, con il termine “Giof” si disignava il boschetto di conifere che si estendeva (e che tuttora si estende) oltre il piccolo piazzale della chiesetta di Peio Fonti.
Non so se il toponimo “Giof” sia utilizzato da tutti, sia formalmente riconosciuto, resta il fatto che nei miei ricordi era proprio quello il nome con cui si indicava quel parco alla periferia di Peio, quel defilato dosso selvoso che fu l'arena prediletta dei miei giochi infantili e, più avanti, delle mie avventurose imprese di ragazzino.




Troia in fiamme. L'epilogo della guerra di Troia rievocato al margine del Giof, sul piccolo piazzale antistante la chiesetta di Peio Fonti. Il palazzo di Priamo e di Andromaca, rifatto con la sabbia, ricreato dalla fantasia e dalle mani di alcuni piccoli amici e da loro stessi (sgusciati nottetempo dallo storico cavallo) dato alle fiamme con gli zolfanelli sottratti dalle tasche di un vecchio nonno, gran fumatore di pipa. Bagliori nel buio e adulti affannati, di corsa a spegnere l'incendio. Appena in tempo, per evitare che le fiamme si propagassero ai cespugli e agli alberi del parco. Infine le dovute strigliate....


Ricordi. Ricordi di un periodo remoto, di un periodo che si fa sempre più lontano con l'avanzare dell'età, con lo scorrere sempre più rapido degli anni. Ricordi che si sono in gran parte smarriti nei meandri di una memoria che si fa sempre più labile.
Ricordi che risalgono a sei decenni fa, anno più anno meno, agli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso quando, in completa libertà, trascorrevo le mie vacanze a Peio Fonti, stazione turistica già allora molto nota, sia per le cure termali che per le ferie, allora solamente estive.
Ricordi ormai ristretti a qualche sporadica e nebbiosa immagine mentale, a dei flash o a delle brevissime sequenze più prossime al sogno che alla realtà.


Sempre attratto dal fuoco sfilavo di notte, con gli occasionali amici vacanzieri, lungo le stradine buie del parco alla luce delle torce che, con grande impegno e pazienza, avevamo assemblato di giorno. Impugnature di legno, rami di nocciolo, all'uopo lavorate a sostegno di bussolotti ricolmi di infiammabilissima resina d'abete. Gioco pericoloso il nostro, incoscienti parate spesso interrotte dal drastico intervento degli adulti.


Battaglie più o meno “cruente” da “ragazzi della Via Pal” tra opposti schieramenti, ognuno ben acquartierato alle due estremità del Giof nel proprio villaggio di verdi capanne, ognuno con i propri depositi di micidiali munizioni, pigne d'abete, strategicamente disposti in nascondigli ai piedi delle conifere del parco.


Giochi d'estate, giochi a perdifiato, giochi di bande incontrollate e incontrollabili di bambini e ragazzini scatenati ma pure lunghe e solitarie passeggiate nel bosco del Giof, tra i suoi abeti rossi e i suoi radi larici alla scoperta di ogni più minuscolo anfratto, di ogni più nascosto e periferico angolo.


Di quel parco conoscevo tutto: sapevo dove trovare le prime “brise” lungo i ripidi e selvaggi pendii che lo delimitavano e i “finferli”, rari ma pure presenti in alcuni segretissimi recessi. Conoscevo i pochissimi marginali e soleggiati siti dove crescevano le fragole o i mirtilli rossi, andavo a colpo sicuro nel raccogliere il mirtillo nero quand'era il suo tempo. Quando poi incontravo un nido di veste sapevo cosa “dovevo fare”, mi era stato ben insegnato. Usavo il fuoco, sì, usavo ancora il fuoco. Su di una una lunga pertica avvolgevo uno straccio imbevuto di nafta, lo accendevo e stando a debita distanza lo posavo sul nido dei temibili insetti. Poi fuggivo, mi allontanavo rapidamente... e così, con queste mie temerarie imprese, conquistai la nomea di “famoso cacciatore di vespe” presso la comunità di salesiani che villeggiava nei pressi, ai piedi del dosso del “Giof”..


Il “Giof “era il mio regno. Quel parco fu il mio mondo, fece costantemente parte della mia vita di bambino e di ragazzino durante le lunghe giornate estive... fino ai miei quattordici anni.
Ora, a settant'anni, trovandomi casualmente a Peio Fonti, ho voluto rivedere il “mio” “Giof”, rivederlo e ripercorrerlo dopo tanto tempo. L'ho voluto attraversare per intero in compagnia della figlia e del nipotino. Figlia e nipotino che, nonostante le mie sollecitazioni, non mi sono parsi per nulla interessati durante la breve passeggiata e ancor meno attenti nell'ascoltare il racconto dei miei lontani trascorsi. Per loro il “mio” “Giof “ era solo uno dei tanti ombrosi e banali boschetti che di tanto in tanto capita di percorrere in cerca di refrigerio durante le calde giornate estive.


Ma non per me. Non dico che rivedere la chiesetta e il parco del Giof dopo tanti anni mi abbia procurato una grande emozione, nessuna grande emozione, solo una vena di malinconia, una piccola dose di nostalgia con il riemergere di ricordi che credevo smarriti per sempre, con la reminiscenza, ad ogni passo, di tanti piccoli fatti, di episodi che avevo del tutto dimenticati. .


Ecco. <<Quell'incavo, sul bordo della stradina era uno dei migliori posti di “finferli”, e lì sotto, più in basso, lungo la scarpata spuntavano le prime “brise”... invece qui, in questa piazzola circolare, che ora si riconosce appena, c'erano alcune panchine, belle, colorate, robuste e ben sagomate... laggiù in fondo, dove ora ci sono quei grandi abeti e manca il sottobosco, ai miei tempi c'era un bosco ceduo fitto di latifoglie ed era lì che con gli amici costruivo le capanne di frasche...>>


La conformazione del terreno è ben poco mutata, è più o meno la stessa ma la vegetazione è cambiata. E' cambiato soprattutto il sottobosco che ora è in molte zone è quasi assente. Allora dominavano quasi ovunque dei vigorosi cespugli di mirtillo nero per la gioia di noi bambini. Ora il suolo è in gran parte nudo, coperto di aghi d'abete indecomposti e, solo in nelle aree più aperte, crescono erbe sottili ed equiseti. Sono sparite le panchine, al loro posto si trovano molti rustici tavoli con panca annessa, inoltre, tra gli abeti, è stato realizzato un percorso di training e il parco è attraversabile anche di notte, rischiarato com'è da piccoli lampioncini elettrici che oggi renderebbero del tutto inutili le “mie” resinose fiaccole del tempo che fu.



Un bel parco quello del Giof. Ai “miei tempi”, per Peio era una ricchezza, era una importante risorsa ambientale e una sicura attrattiva per il turista. Lo è anche oggi? Non credo. Al tempo degli impianti a fune che in pochi minuti portano chiunque ad alta quota, sulle cime dei monti e nei boschi al limite della vegetazione arborea, il “Giof” ha probabilmente perso gran parte della sua capacità di incuriosire se non di incantare, per non dire di affascinare, addirittura, come riusciva a fare un tempo con qualche turista.


Il parco boscoso del “Giof”oggi, probabilmente, affascina solo me, che proprio non riesco a vederlo con obiettività, per quello che è, sgombrando la mente dai ricordi che inevitabilmente filtrano la realtà rendendo molto più allettante ciò che è stato rispetto a ciò che è.



Altre foto in “Google Foto


Ritorno in Val Pudria



Quando, di buon mattino, in compagnia dell'amico di sempre, raggiunsi in auto il Fontanino di Pejo non sospettavo che il traguardo della nostra escursione sarebbe stata la Val Pudria, la piccola conca erbosa posta a 20150 metri sul versante idrografico destro della Val del Monte. Sì, proprio la “mia” Val Pudria nascosta lassù, in alto, oltre il bosco e le rupi scoscese che dominavano l'ampio parcheggio dove ci trovavamo.
“Mia” Val Pudria perché le sono affezionato, la conosco molto bene, la conosco e la conoscevo da sempre, è una mia vecchissima “frequentazione”; infiniti ricordi mi legano a lei, reminiscenze vicine ma soprattutto lontane e tra queste ultime la memoria di giovanili avventate “imprese” sui monti che la sovrastano. La conoscevo talmente bene che mi sembrava superfluo visitarla ancora una volta. La meta programmata con il mio amico, era un'altra: era la Val Comicciolo, un valletta molto più selvaggia e poco frequentata che si apre oltre i ripidissimi pendii a monte del bacino artificiale di Pian Palù, ai piedi della cima Redival; un piccolo avvallamento racchiuso tra la Val Montozzo e la “mia” Val Pudria. Mi allettava il pensiero di ritornarci dopo numerosi anni di assenza sperando di incontrarvi quelle marmotte e quei camosci che un tempo non mancavano mai e, con un po' di fortuna, anche qualche pernice bianca o un raro esemplare di stambecco sui suoi picchi e sulle sue creste rocciose un tempo sempre sorvolate dall'aquila,
Così non è stato...





Ma ritorniamo a noi. Siamo al Fontanino di Pejo, punto di partenza della nostra mattutina impresa. Imbocchiamo, senza alcun tentennamento, il frequentatissimo sentiero sulla sponda destra del Noce (sulla sinistra guardando la diga del Palù) che in una mezz'oretta di tranquilla camminata permette a chiunque di raggiungere la Malga Celentino posta poco sopra le sponde del lago artificiale di Pian Palù.
Nei pressi di quella malga parte il sentiero che porta in Val Montozzo (uno dei due possibili percorsi per il Montozzo) ed è proprio da questo tracciato che, ad un certo punto, si dirama la ripida salita per la Val Comicciolo, ultima salita verso il nostro traguardo. Quindi raggiunta la Malga di Celentino non abbiamo dubbi (purtroppo) e subito imbocchiamo il sentiero per la Val Montozzo. Lo seguiamo a lungo nell'ombra del versante non ancora rischiarato dal sole, lo seguiamo per più di mezz'ora, fino a quando... alt... siamo costretti ad arrestarci. Il torrente che precipita dalla nostra meta, la Val Comicciolo, ci taglia la strada impedendoci di proseguire. E' impossibile superare quel rio. Un corso d'acqua che solitamente è del tutto irrilevante oggi è incredibilmente impetuoso. Il rapido scioglimento della neve caduta in abbondanza durante gli ultimi mesi lo ha gonfiato come non mai rendendolo invalicabile. Così, a malincuore, siamo costretti a rinunciare all'escursione e maledicendo i cambiamenti climatici che stanno sconvolgendo il normale andamento delle stagioni ritorniamo a Malga Celentino.
Potevamo prevederlo... Gli effetti del clima che muta sono sotto gli occhi di tutti: dovevano essere anche sotto i nostri occhi.
L'autunno e buona parte dell'inverno sono trascorsi senza neve. Solo in primavera ha nevicato in abbondanza, fuori stagione e fuori misura soprattutto alle quote più elevate. E ora, dopo le anomale precipitazioni e le gelide temperature primaverili dobbiamo fare i conti con un'improvvisa ondata di caldo come ben poche volte si è vista... la neve si squaglia rapidamente e i torrenti si gonfiano. Era più che verosimile che il nostro sentiero fosse impraticabile...
Probabilmente sono anche molti altri i sentieri che subiscono o che hanno subito gli effetti del cambiamento climatico. Anche per cause diverse.
A fine ottobre la tempesta Vaia ha colpito anche la Val del Monte: sulla sponda opposta del lago sono ben visibili le conseguenze: estese macchie il bosco sono state sradicate dalla furia del vento ed è probabile che anche su quei pendii alcuni percorsi siano interrotti.





Siamo nuovamente nei pressi di Malga Celentino. Abbiamo camminato inutilmente per quasi un'ora... ma forse no, non del tutto inutilmente. Abbiamo comunque ammirato un bel panorama: il panorama del lago visto dall'alto con, in lontananza, il Corno dei Tre Signori ai cui piedi, ce lo siamo detto, nasce il fiume Noce. E tanti fiori lungo il sentiero... i rododendri e la clematide alpina aggrappata alle rocce o tra i cespugli di ontano verde e di ribes selvatico nell'ombra del lariceto.
Ma ora... che fare qui a Malga Celentino? La nostra è una decisione quasi obbligata: dalla malga si diparte anche lo stretto sentiero per la Val Pudria... non ci resta che imboccarlo per un ennesimo ritorno in Val Pudria. Un ritorno tutto sommato non sgradito che purtroppo però dobbiamo iniziare ad affrontare con il sole già alto, un sole che ormai picchia forte, che ha raggiunto anche il nostro versante, i ripidi pendii che ci accingiamo a salire.





Un'ora di cammino su di un sentiero tutto tornanti e alquanto erto tranne nella sua ultima parte ed eccoci finalmente ai bordi della conca erbosa della Val Pudria. Avanziamo e alla nostra sinistra si apre subito un'ampia vista con, in primo piano, degli antichi larici allineati sul dirupo e a sullo sfondo una catena di monti ancora innevati. Sono le cime del gruppo montuoso dell'Ortles-Cevedale: il Vioz con Punta Linke, il Taviela, Cadini, Giumela, san Matteo...
Proseguiamo... attraversiamo un torrentello particolarmente ricco d'acqua e percorriamo un verde pianoro punteggiato di giallo e di blu... Sono i primaverili colori dell'erba tenera cosparsa di anemoni e di genziane, fiori nati in ritardo, cresciuti in fretta e sbocciati solo quando la neve caduta in abbondanza fino a poche settimane fa si è squagliata al sole di giugno.





Ancora una brevissima salita e la meta finale è tutta nostra: siamo sulla piccolo altura rocciosa sulla quale si trova la baita di Val Pudria. Finalmente... finalmente possiamo aprire il cancelletto (mettendo in fuga alcune marmotte) del recinto che circonda parte del bivacco, che attornia questa piccola, vecchia e rustica costruzione, ristrutturata e arredata parecchi anni fa dai cacciatori. Quattro posti letto su due letti a castello, e un locale per riposare, intrattenersi, cucinare e mangiare... credenza, caminetto, focolare, grande tavolo con panca e sedie. Un baito spartano ma accogliente e soprattutto fresco. All'esterno tre tavoli con panche e poco più in basso, al margine del pascolo, una fontana, con acqua potabile, scavata in un tronco presso i resti di un'antica malga e di una caverna scavata durante la grande guera.
Dopo una breve pausa seduti sulle panche all'esterno dell'edificio e un più che meritato spuntino, iniziamo la breve discesa verso il piccolo lago ai piedi dell'altura. Di tanto in tanto ci fermiamo per ammirare le soldanelle spuntate numerose dove la neve si è appena sciolta, i nontiscordardime nell'erba più alta, le genziane tra le rade piante di mirtillo e infine per ammirare, alquanto sorpresi, le numerosissime api che volano da una infiorescenze di rododendro all'altra.





Nel laghetto, che costeggiamo, nuotano migliaia di minuscoli girini. Al nostro passaggio fuggono e si si disperdono tra gli schizzi sollevati delle rane che si tuffano e si inabissano nascondendosi sul fondo melmoso di questa che si rivela essere solo una pozza d'acqua per niente limpida.
Proseguiamo percorrendo in lungo e in largo tutto il pascolo, un vasto territorio ondulato che sicuramente, tra non molto, verrà monticato da vitelle e manze in grande numero. Per il momento è tutto nostro, siamo soli, indisturbati, e lo possiamo perlustrare con grande tranquillità alla ricerca di angoli erbosi incontaminati, i più ricchi di fiori e di profumi. Lo possiamo perlustrare a lungo alla ricerca dei punti di osservazione più adatti per contemplare da differenti angolazioni il paesaggio che ci attornia.





E' mezzogiorno. Il sole picchia forte e fa molto caldo anche se ci troviamo a più di 2000 metri. Temperature alte, quasi all'improvviso, dopo lunghe settimane molto fredde. Anomalie climatiche. Eventi meteorologici contrapposti (che oserei definire estremi) che si succedono con inusuale rapidità. Di questo discutiamo, io e il mio amico, all'interno del bivacco, ben protetti dalla calura, mentre addentiamo i panini e vuotiamo una lattina di birra piacevolmente fresca.
La pausa pranzo non dura a lungo. Seduti all'esterno del baito, con i gomiti ben puntati sul bordo della staccionata “sbinocoliamo” sulle rocciose pendici che ci sovrastano alla ricerca di qualche camoscio ancora attivo nonostante l'ora poco propizia. Ne osserviamo solo un esemplare intento ad attraversare uno dei numerosi nevai che ancora coprono rocce e ghiaioni. “Sbinocoliamo”... “Sbinocoliamo” a lungo su quelle cime e ci prende un velo di malinconia al ricordo di quando, molti anni fa, lassù, su quei ripidi pendii, salivamo ogni estate per esplorare ogni canalone, ogni anfratto, ogni cresta... per avvicinarci ai camosci, per osservarli da vicino... Ora quelle salite, quegli erti percorsi verso la Val Comicciolo o la Bocchetta di Saviana siamo costretti a guardarli da lontano... con il binocolo... Che avvilimento. Meglio fare ritorno anche se è ancora presto e fa molto caldo. Meglio scendere a valle prima di deprimerci ulteriormente, prima che scemi anche quel piccolo-grande piacere che il ritorno in Val Pudria ci ha comunque donato.



Guarda tutte le foto in “Google Foto