Il calar della luna sul San Michele

 


Dopo le immagini del castello di San Michele riprese al levar del sole dai dintorni della Poia di Fucine alla fine di agosto e subito pubblicate nel post “Un omaggio e un augurio al Castello di San Michele”, rieccomi con nuove fotografie per ossequiare (nuovamente) il bel maniero. Le ho scattare sempre all’alba, all’inizio di settembre, nei pressi del Colle Tomino, cercando di cogliere il tramonto della luna, luna piena o meglio appena appena calante sopra Ossana e il suo castello.



Un ulteriore dono (non so quanto pregevole ma che spero comunque benaccetto) ad un castello veramente suggestivo, un castello che emoziona, che emoziona sempre e per davvero quando lo si osserva dominare dall’alto di una rupe rocciosa, imponente e austero, la plaga di Ossana dove l’Alta Val di Sole si apre verso la Val di Peio e le cime dell’Ortles Cevedale.



La vista del suo massiccio e intatto mastio accerchiato dai resti del palazzo e delle mura di cinta richiamano alla memoria la descrizione che ne fece il Ciccolini nel suo storico tomo “Ossana nelle sue memorie:
Che cosa ci resta dell'agguerrito castello San Michele, che i Federici ricostruirono nella prima metà del quattrocento? Il mastio, alto, severo e mesto come cippo funebre su d'una balza dirupata, che gli serve di piedestallo; ai suoi piedi il deserto maniero, rotto ai venti e alle nevi. Tutto intorno è scompiglio e rovina e le mura di cinta male proteggono dall'occhio del curioso, come dall'uragano, lo sfacelo di antiche e superbe grandezze. I merli sono caduti, si sfasciarono le stanze, franarono gli avvolti e sotto le macerie stanno confusi e affratellati i modiglioni della gronda e la botola della prigione, l'altare della cappella e  la pietra che celava il trabocchetto. E dove sono i caminetti, gli alari, le mazze, i trofei, le stoviglie e i monili? perché non si ode più il fragore dell'armi, il cigolio della saracinesca e del ponte levatoio e il desiato suono della diana? perché non si diffondono nella quieta notte stellata, il rumore della danza, il canto del menestrello e le melodie del liuto e della mandola?......"



Incantevole scritto, quello del Ciccolini... scritto in cui la descrizione dello sfacelo dei resti del castello si contrappone al lirico riecheggiare degli antichi fasti, alle immagini e ai suoni delle “antiche e superbe grandezze”. Incantevole ma anche desolato affresco... fortunatamente superato dal tempo per ciò che riguarda lo stato di abbandono e di disfacimento del castello. Ciò che del castello rimane (e non è poco), la sua torre ancora intatta e i resti dei palazzi, delle altre torri e delle cinte murarie sono stati ricuperati, consolidati e restaurati e l’intero complesso è ora visitabile, aperto al pubblico per più periodi durante l’anno.



Ultimamente si è aperta pure la visuale sul castello liberandola da una presenza ingombrante, da una imponente e relativamente recente costruzione posta nei pressi del rondello a poca distanza dal ponte levatoio. Uno squallido parallelepipedo grigiastro dal quale troppo spesso, durante la stagione fredda, si levava un fumo nero, denso e acre che offuscava e ammorbava l’aria dell’intero abitato. C’è da augurarsi che al suo posto sorga un piccolo edificio, ben inserito nel contesto monumentale, adibito all’accoglienza dei visitatori. Come c’è da augurarsi che il bel castello venga valorizzato con manifestazioni ed eventi di qualità, degni di essere ospitati in un sito così importante (alcuni si sono già visti; tra questi alcune rappresentazioni teatrali “Il sogno di Aconcio- tra dogma ed eresia”, “Le donne della diga”... - Presentazione delle “Casa degli Affreschi” su piattaforma multimediale - alcune pregevoli mostre… e altro che non ricordo), evitando iniziative che possano svilirlo riducendolo (come ho già scritto in altri post) ad un monumento tuttofare adatto per "ogni occasione e per ogni stagione”.


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“El Nos Rabios” ovverosia il fiume Noce infuriato

 


Questo scritto (e le foto che lo illustrano) più che al fiume Noce si riferiscono è al suo affluente, il torrente Vermigliana, torrente che dai valligiani viene denominato “Nos”, in omonimia con il fiume nel quale si riversa.



Ci risiamo. Dopo due anni dall’ultimo evento alluvionale (che fortunatamente non ebbe particolari conseguenze) il Noce e i suoi principali affluenti, i torrenti Vermigliana, Meledrio e Rabbies nonché i numerosissimi rii che, più o meno importanti, che vi si riversano dai versanti dei monti, si sono nuovamente gonfiati, oltremisura, a causa di una pioggia particolarmente intensa (ma fortunatamente, di non di lunghissima durata).


E, questa volta, i “guai” non sono mancati (considerevoli in alcune zone, come quelli causati dal Rio Valpiana), ma avrebbero potuto essere ben maggior coinvolgendo i centri abitati se, sul Vermigliana, non ci fossero state due grandi briglie filtranti con relativi bacini di deposito che trattenendo il materiale alluvionale ne hanno impedito il deposito più a valle, dove il torrente spiana, con conseguente esondazione in alcune aree urbanizzate del paese di Fucine, ma probabilmente non solo di Fucine. Scampato pericolo per i residenti e gli imprenditori di quelle zone, un sospiro di sollievo, ma se la pioggia non fosse cessata che sarebbe successo? Guai grossi sicuramente... disastrosi effetti che forse solo la presenza di altre opere filtranti con grandi bacini di deposito sul Vermigliana e briglie sui rii (Val Cavagna e Furesta e Val Orche) che si riversano dai versanti avrebbero potuto contenere.


In un mio post di due anni fa (dal titolo “Quando el Nos lé rabios”) elencavo le date, a partire dal 1500, dei più disastrosi eventi alluvionali che colpirono la Val di Sole e in particolare l’Alta Valle con la conca di Ossana, così come le avevo rinvenute consultando alcuni testi di “Autori” solandri. A queste ne avevo aggiunte altre sulla base delle testimonianze di mio nonno (nato nel 1878 e deceduto nel 1966) accompagnandole con un suo drammatico ricordo dell’alluvione che colpì Fucine nel lontano 1886, riprendendo il tutto dal un suo tomo a solo uso familiare intitolato  “Memorie”.


Come si legge nel mio post di due anni fa nel corso dei secoli, come dei decenni a noi più prossimi,  sono stati molti gli accadimenti calamitosi che hanno funestato il quieto vivere della Val di Sole, ma in questi ultimi anni il gonfiarsi oltremisura di torrenti e rii si è fatto sempre più frequente a causa di una mutazione climatica che tende ad accentuare, oltre al reiterarsi, anche l’intensità degli eventi meteorologici "estremi".


Le piogge sono sempre più forti, anche se spesso sono di breve durata. A volte sono associate a venti tempestosi o a temperature alte anche in quota che non consentono di trasformare la pioggia in neve. Sono avvenimenti, questi, che possono facilmente mettere in crisi i piccoli bacini idrografici particolarmente quelli posti su pendii geologicamente fragili, instabili (e magari di natura morenica come quelli posti su gran parte del versante destro della nostra valle), causando profonde incisioni, frane e smottamenti che riversano a valle e quindi nell’alveo dei corsi d’acqua principali grandi quantità di materiale, massi, ghiaia, sabbia, limo… intasandoli, provocando colate di fango e facendoli esondare.


Ma di tutto questo ho già “detto” nel mio post di due anni fa. Con un “copia incolla” lo riprendo comunque anche qui, lo ripresento in questo post… rivedendolo solo in minima parte, solo qua e là...

Come si è visto eventi alluvionali più o meno disastrosi funestano da sempre la valle così come funestano molti altri territori per non dire l'intera superficie terrestre. Sono accadimenti inevitabili... i monti sono inesorabilmente destinati ad appiattirsi, a poco a poco, nel corso dei tempi, tempi certamente lunghissimo. Le opere di sistemazione idraulica e forestale possono solo rallentare e contenere il processo cercando di salvaguardare il più possibile gli insediamenti umani. E va riconosciuto che, da noi, gli interventi a salvaguardia dei centri abitati, delle vie di comunicazione, delle campagne non sono mancati e che molto si è fatto non solo in questi ultimi anni... non mancano di certo i muri di sponda, i cunettoni, le difese elastiche, le arginature, le briglie, anche filtranti, i bacini di espansione e di deposito... le opere di consolidamento delle frane, i paravalanghe... ma evidentemente questo non basta. Ancora molto si può e si deve fare anche se non sarà comunque sempre possibile evitare che si verifichino degli accadimenti calamitosi soprattutto di fronte al mutare delle condizioni climatiche che drammatizzano lo scenario accentuando la frequenza e l'intensità degli eventi meteorologici estremi.


E' sotto gli occhi di tutti che la pioggia non scende più come un tempo quando solitamente le alluvioni venivano causate da piogge persistenti, non intensissime, ma che non cessavano mai, gonfiando rivi, torrenti e fiumi, a poco a poco. Oggi i tempi si sono ridotti, piove a dirotto e le precipitazioni (le cosiddette “bombe d'acqua”) sono spesso accompagnata da bufere di vento che spianano i boschi, tempeste (che qualcuno definisce tropicali) che mettono in crisi soprattutto i piccoli bacini idrografici gonfiando a dismisura rigagnoli e torrentelli provocando erosioni, frane per crollo e smottamenti. C'è molta più energia nell'atmosfera, energia che si scarica sulla terra producendo fortunali finora sconosciuti. C'è più calore e i ghiacciai si ritirano, scompaiono, il permafrost si squaglia e i vasti territori d'alta montagna diventano instabili, fragili...


Come affrontare la situazione? Non spetta certo a me stabilirlo elargendo ricette risolutive che, in ogni caso, credo non esistano proprio. Comunque ciò che io mi auguro venga fatto sta tutto qui sotto... nelle  poche righe che seguono...
Auspico che si faccia molto di più a livello mondiale per contenere il cambiamento climatico, per limitare il riscaldamento globale evitando drasticamente l'immissione in atmosfera di ulteriori quantitativi di gas serra; mi auguro che accanto alle istituzioni anche le singole persona si impegnino a fondo, che riflettano sulle sue loro abitudini consolidate cambiando, eventualmente, il loro stile di vita, anche nelle piccole cose di ogni giorno, rendendosi meno dipendenti dal consumismo imperante.


Penso che si dovrebbe porre la massima attenzione prima di urbanizzare zone che un tempo, magari lontano, furono interessate da frane, alluvioni, valanghe... Gli eventi alluvionali tendono a ripetersi e prima o poi investiranno nuovamente le aree che già colpirono in passato.... A questo proposito sarebbe auspicabile un maggiore rigore nella stesura e revisione dei piani regolatori comunali… (in giro si mormora che talvolta si siano presi provvedimenti in senso opposto, liberalizzando l’edificabilità anche in zone a rischio alluvione o valanga – un cambio di destinazione d’uso inappropriato - Sarà vero o saranno solo chiacchiere da bar?).


Penso che sia da evitare l’impermeabilizzazione totale o parziale del suolo con insediamenti turistici in quota, disboscamenti per piste da sci, impianti a fune, ecc. soprattutto se realizzati in zone geologicamente fragili (vedi Folgarida e Marilleva)...
Penso che i nostri boschi vadano progressivamente trasformati, da boschi di produzione a boschi più orientati alla protezione, da formazioni coetanee e pure (d’abete rosso, così debole al vento!), a formazioni disetanee e miste (cosa che parzialmente già sta avvenendo grazie alla selvicoltura naturalistica). Che i nostri boschi, così antropizzati (sostanzialmente “coltivati”), vadano lentamente avvicinati alla conformazione delle foreste primigenie, le foreste naturali, molto più resistenti alle tempeste e con un suolo fertile, soffice e spugnoso in grado di assorbire e trattenere grandi quantitativi d'acqua, restituendoli in tempi lunghi e allungando così i tempi di corrivazione.”



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...sia le foto scattate alcune ore dopo la punta di piena, quando il sole era ritornato ad illuminare la valle sia quelle scattate due settimane dopo l’evento alluvionale, durante i lavori di svuotamento dei bacini di deposito a monte del paese di Fucine.


Al bivacco “Stalon de Bon” e al “Lago di Venezia”

 


Escursione in compagnia di pochissimi amici e in particolare di un “amico ritrovato”, ritornato in Val di Sole dopo parecchi anni di lontananza… Escursione nel segno delle “rimembranze”, del ricordo dei bei tempi passati, delle lontane “avventure” vissute assieme sui monti della valle… 



Metà settembre. Cielo terso e totalmente sereno sopra la Val Piana quando, di buon mattino, abbandonate l'auto, imbocchiamo sentiero che sale a “Bon”. Atmosfera di fine estate, d’estate morente... Profumo di umidore, di umidore autunnale più che estivo. Temperatura fresca, piacevolmente fresca, nell’ombra profonda che ci avvolge permanentemente durante l'iniziale salita. Davanti a noi, emerge dall’oscurità solamente il “Corno di Bon”, splendidamente irraggiato dal sole. Sole che, dietro di noi, ha raggiunto da tempo l’ampia area montuosa del “Salar”, della “Vegaia”e delle alte praterie delle “Pozze”.
Il sentiero, ai piedi dei “Crozi dei Meoti”, è in gran parte ripido, tortuoso e sconnesso… Con una punta di amaro sarcasmo non possiamo non constatare come, con il trascorrere del tempo, con il passare dei nostri anni, il sentiero si sia molto allungato, si sia fatto, più erto e molto più affaticante.



Finalmente, sbuchiamo in “Anziana”, una breve e stretta vallecola pianeggiante, il fondo di una forra sempre bello e suggestivo. Bello pure oggi nonostante l’ombra imperante e le tinte anonime di fine estate. Solo i tappeti di mirtillo rosso, sparsi qua e là su dei grossi massi, con la vivacità delle loro bacche rosse e il verde brillante delle foglie coriacee rompono l’oscura uniformità di un paesaggio senza sole e ancora privo dei dorati colori autunnali.



E il sole arriva… Quando, su di un tracciato fattosi ora più agevole, raggiungiamo la selvaggia conca di “Bon” la troviamo tiepida e bene illuminata. Un autentico dono per la nostra compagnia, compagnia di quattro attempati amici, che, in riva al torrentello, possono sostare, rilassarsi, ristorarsi e soprattutto riposare i muscoli e le  ossa vecchie e stanche. E naturalmente, qui, dove la via si biforca permettendo di raggiungere sia “Caldura” (dove, qualche anno fa, il bel bivacco è stato distrutto dalla valanga), il monte “Giner” e il passo del “Cagalatin”, sia, per diversa via, il bivacco “Stalon de Bon”, il "Lago Venezia”… qui non può mancare la rimembranza, non possono mancare i ricordi delle passate “imprese”, gli aneddoti più o meno curiosi, che videro protagonisti questi e altri amici nei loro “migliori” anni.



Ancora salita ma per poco... All’improvviso ci troviamo di fronte al bivacco “Stalon di Bon”, un “baito”, singolare quasi “unico nel suo genere”. Eretto qualche anno fa all’estremità dei resti ripuliti e consolidati dello stallone di “Bon” è un "rifugio" veramente confortevole, fin troppo confortevole verrebbe da dire… E' provvisto di tutto, di acqua corrente, servizi igienici, gruppo elettrogeno, pentolame, stoviglie e detersivi e pure di una statuetta in ceramica della Vergine per i più devoti. Su due piani, dotato di cucina economica con tanta legna secca, ben protetta all’esterno, tavolo con panche, credenza, otto comodi posti letto, con coperte, possibilità di barbecue all’aperto con rustico tavolone sulla vecchia pavimentazione della stalla. E proprio seduti attorno a questo tavolone, intiepiditi dal sole settembrino di mezzogiorno, mangiamo, beviamo e conversiamo... piacevolmente.



Mentre “qualcuno” riposa per poi farsi una partitina a tresette, io e il coraggioso “amico ritrovato”, proseguiamo il cammino verso la spianata di “Venezia”. Sono ben venticinque anni (ma probabilmente anche qualche anno in più), che io e il mio amico, non calchiamo questo sentiero… allora non solo raggiungemmo il “Lago di Venezia”, ma proseguimmo ben oltre, raggiungendo il bivacco “Jack Canali” dove trascorremmo la notte.  Di quella lontana escursione parliamo a lungo, mentre faticosamente affrontiamo la salita. Aiutandoci vicendevolmente, facciamo emergere molti ricordi più o meno dettagliati, riusciamo a rammentare molti dei fatti (belli e meno belli) che caratterizzarono quell’impresa, molti particolari che da tempo si trovano sommersi, spenti nei meandri della nostra memoria.
Ed è bello rammentare… non solo ricordare quella nostra escursione ma anche altre “avventure” che, insieme, ci videro protagonisti in altre zone della valle. Ma non solo. E' pure bello rievocare anche le “avventure” che mi videro scarpinare proprio quassù, su questi monti con altri amici (alcuni purtroppo scomparsi): il pernottamento in “Caldura” seguito dalla mattutina salita alla conca del “Giner” piena di camosci, la discesa sulla neve dal passo Scarpacò provenendo dai “Laghetti di Cornisello”, la ripidissima salita al “Bochet de l’Omet” e la successiva calata ai laghi “Piccolo" (o de "La Sté") e di “Barco”, la traversata dalla “Colem del Dos” a “Venezia” dove ora ci troviamo... 



Raggiunto il paletto della segnaletica (Passo Scarpacò – Laghi Cornisello - Bivacco Jack Canali – Rif. Val Amola Segantini) diamo l’addio al pianoro di “Venezia” dopo aver osservato un’ultima volta il Lago, ridotto, specie in questa stagione, ad una piccola pozzanghera paludosa.
Scendiamo a valle.
Breve pausa allo “Stalon de Bon” per “raccogliere gli amici” che nel frattempo si sono ristorati oltre il dovuto e riprendiamo la discesa. Discesa quasi interminabile, ben oltre il previsto... a causa dei problemi alle ginocchia di uno di noi. Niente di preoccupante. Solo un lento rientro che ci dà modo di conversare, di ricordare e perché no, di programmare altre uscite, sempre sull’onda della “rimembranza”, della rievocazione di qualche passata, “antica” escursione.


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Brr… Brina settembrina



Per la prima volta, alla fine di un settembre insolitamente caldo, la temperatura, durante la notte, è scesa sotto lo zero, seppure di poco. L’umidore si è ghiacciato ed è comparsa la brina. E’ comparsa sui versanti della valle ma anche sul fondovalle, anche sull’erba del prato di casa mia. Un accadimento atteso da tempo, del tutto coerente con l’arrivo dell’autunno e soprattutto con il comune andamento climatico di questo periodo dell’anno.



Quando, di buon mattino, inizio una delle mie abituali passeggiate nei dintorni del paese il freddo si fa veramente sentire. Per la prima volta, dopo molti mesi, il freddo punge, punge viso e mani e sembra annebbiare pure i riflessi, attenuare la percezione... ho la netta sensazione che le movenze del mio procedere vengano rallentate, quasi fossero congelate. Ma forse è solamente una mia impressione. La scoperta della brina mi ha sicuramente suggestionato anche se è vero che al termine dell’estate il fisico non è assuefatto al freddo ed una così improvvisa e inattesa flessione della temperatura lo potrebbe aver intorpidito.



Procedo verso il Fil, alquanto intirizzito, nell’ombra gelida di una mattina serena ma ancora senza sole. Il sole in verità c’è, non manca, ma per il momento illumina solamente gli alti e ripidi pendii del versante opposto, non raggiunge l’angusto fondovalle dove sto lentamente camminando.



Avanzo. Tutto è gelato, anche il rumore del torrente che mi scorre accanto appare gelato, si percepisce molto affievolito.
Ora la valle si allarga , si apre seppur di poco, dando spazio a pianeggianti radure erbose e boschetti di conifere e latifoglie.
Paesaggio in chiaro scuro in assenza della luce diretta del sole. Al limitare del bosco fitto e buio, praticelli ammantati di bianco, vestiti di gelida brina. Ambiente ombroso che vive di luce riflessa, ravvivato solo dalla luminosità dei solatii versanti delle Pendege che si elevano ripidi al di là del torrente.



Nelle radure che costeggiano la stradina erbe alte, vigorose, lussureggianti, uniformemente verdi ma punteggiate da mille minuscoli fiocco di brina… Ambiente cromaticamente spento, monotono ma reso interessante se non attraente dai biancastri cristalli di ghiaccio che si addensano sul margine di ogni foglia, di ogni filo d’erba delineandone i contorni ed evidenziandone le sagome. Sagome orlate di bianco che nel loro insieme originano piacevoli composizioni e fantasiosi intrecci impercettibili in assenza di brina.



Il sole inizia ad occhieggiare tra i rami più alti degli abeti che racchiudono la radura. Deboli raggi, che filtrano tra le fronde delle conifere, deboli e radenti ma sufficienti a rianimare il paesaggio, a donare colore e con esso vita ai prati del Fil. Raggi che regalano luce, regalano luminosità alle spente trasparenze dei minuscoli fiori di ghiaccio sbocciati ovunque, con il freddo della notte.



Il sole gioca a rimpiattino con le cime degli alberi. Isole di luce scivolano pian piano sulla radura, si distendono, si allungano, si chiudono e si spostano con il sole, vagando lentamente tra le erbe gelate.
Il tepore invade la zona. Il sole è emerso dal bosco. Staccandosi dagli alberi si è decisamente affacciato sul fondovalle.


L’ambiente ora è chiaro, definitivamente inondato di luce. Si è aperto al sole… sole che ha espugnato anche molti degli angoli più nascosti e ombrosi.
I cristalli di brina scintillano sugli steli, sulle foglie, sugli ultimi fiori di fine estate. Scintillano... ma ancora per poco. La brina si scioglie, la bianca coperta si squaglia e il prato riprende la sua abituale verde sembianza estiva. E’ solo più fradicio e più intirizzito del solito.



Prima che la brina scompaia del tutto, prima che la bianco incantesimo svanisca completamente mi intrufolo nell’ombra scura del bosco sicuro di trovarvi altre gelide magie. Ma così non è. Sui muschi, sulle acetoselle, sui funghi, sul suolo nudo non solo non c’è brina ma nemmeno rugiada, nemmeno una piccola quantità d’acqua. Tutti sanno e io pure lo so che nel bosco la fitta copertura d’alberi e cespugli è in grado di mitigare le escursioni termiche creando un microclima particolare che preserva dagli sbalzi di temperatura. Lo sapevo ma chissà perché, intento com’ero alla ricerca di nuove emozioni visive, in quel momento me ne ero scordato. Nessuna magia. Niente brina. Una piccola delusione che potevo evitare.



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