Estremi meteo: gli eccessi del torrente Vermigliana


 

Da un eccesso meteorologico all’altro... reiterate manifestazioni estreme, eventi eccessivi, ormai sotto gli occhi di tutti... sempre che li si voglia vedere, che li si voglia considerare e per quanto fattibile, gestire nelle loro conseguenze e soprattutto nella loro origine.

Il “tempo” meteorologico ci maltratta sempre più con colpi di frusta sempre più frequenti e violenti, ci fa sobbalzare bersagliandoci con accadimenti che anche in tempi brevissimi vanno da un estremo all’altro... da un’ondata di calore ad una di freddo inusuale, da un lungo periodo siccitoso ad uno di pioggia intensa a volte talmente furiosa da causare frane e disastrose alluvioni.

Un “tempo” che come ovunque anche in Val di Sole è ormai caratterizzato dal reiterarsi di eventi climatici estremi, eventi che in passato erano decisamente più rari….  caratterizzato dal sempre più frequente verificarsi di situazioni per più aspetti preoccupanti, situazioni di cui, nel corso degli ultimi anni ho seguito il verificarsi e l’alternarsi, “leggendole” anche nella variazione talvolta lenta, talvolta improvvisa, della portata d’acqua del torrente Vermigliana sulle cui sponde mi muovo frequentemente.




Verso la fine di marzo, ma anche durante il mese successivo e, se ben ricordo, anche più avanti, il torrente Vermigliana era in secca, era quasi asciutto, asciutto come mai prima mi era accaduto di vedere. Dopo un lunghissimo periodo siccitoso (15 mesi?) vi scorreva solo un esile filo d’acqua come documentano le immagini (e lo scritto) di un mio recente post: “Siccità: tramonto sul torrente Vermigliana in secca”.



Il giorno dopo...

Alla fine di agosto, dopo un lungo periodo di caldo torrido, sono state sufficienti alcune ore di pioggia (un pomeriggio seguito da una notte di pioggia molto intensa), per mettere in crisi il bacino idrografico del Vermigliana. Come ormai tende ad accadere con inusuale frequenza il torrente si è gonfiato a dismisura allarmando non poco turisti e residenti. Solo la presenza di due imponenti briglie filtranti e dei relativi bacino di accumulo ha impedito che le acque esondassero allagando aree abitate e campagne. Scampato pericolo… ma il futuro cosa ci riserverà? Le opere idrauliche oggi presenti saranno sufficienti a proteggerci dalle piene che con ogni probabilità si faranno sempre più frequenti e distruttive? Si potrebbero rendere indispensabili altre briglie, altre arginature… ma fino a quando potranno proteggerci? In assenza di efficaci azioni volte ad incidere sulle cause del cambiamento climatico, qualsiasi ulteriore intervento di adattamento a delle situazioni climatiche sempre più estreme, potrebbe, a lungo termine, rivelarsi del tutto inutile.



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Torrente in secca

Torrente in piena


Il monte Vioz denudato

 


Proprio così. Durante gli ultimi decenni il Vioz si è a poco a poco spogliato. Si è quasi totalmente denudato. A nascondere una esigua porzione della sua pelle rocciosa ora (agosto 2023) rimane solo uno striminzito slip grigiastro, posizionato in alto, appena sotto il pianoro che unisce la sua cima a punta Linke.


Proprio così. Quell'elegante, candido completo da tennista d’altri tempi che il monte Vioz indossava regolarmente tutte le stagioni estive durante gli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso è solo un lontano ricordo. Sono stati sufficienti pochi decenni per esaurire l’intera scorta delle bianche uniformi adatte a vestire la sua possente corporatura.

In origine le uniformi indossate dal Vioz erano molto grandi, ma con il passare degli anni quelle ampie divise si sono logorate. Non trovandone altre la nostra montagna è stata costretta a sostituirle con divise di taglia inferiore, sempre più piccole, finché ultimamente tutti i modelli idonei a ricoprirla più o meno completamente si sono fatti irreperibili e la montagna è rimasta... in mutande. All’inizio portava dei bei mutandoni XXL, mutandoni che in pochissimi anni si sono però ristretti alle dimensioni dell’attuale minuscolo slippino.


Esibizionismo? Da escludere. Il monte Vioz, per come lo conosco è un monte austero, serio e molto posato. Sa di essere più attraente se ben coperto, se ben vestito… è ben consapevole di quanto gli doni un bianco abito di neve...



No, non sono sicuramente state le rossastre rocce del monte Vioz a volersi deliberatamente spogliare, a volersi liberare dell'abito, del vestito di neve e di ghiaccio che oltretutto le proteggeva pure dal caldo riflettendo i raggi del sole e isolando termicamente il permafrost sottostante.

No, la causa di questo strip-tease va ricercata (e ora siamo finalmente seri) nel rapidissimo aumento della temperatura terrestre che sempre più caratterizza ogni periodo dell'anno, l’estate in particolare. E’ stato quel cambiamento climatico di origine antropica (così ci dice la, complessivamente compatta, comunità scientifica) di cui tutti parlano, di cui tutti conoscono le disastrose conseguenze... quelle siccità, quelle bombe d’acqua, quelle frane ed alluvioni, grandinate, tempeste, altissime temperature ecc. ecc. che vengono regolarmente ed estesamente presentate dai vari media... sistematicamente trascurando però di dissertare sulle responsabilità dell’Homo sapiens e sul “che fare” per attenuare il loro progressivo accentuarsi. Disastrose conseguenze si diceva, di cui ben pochi, ad ogni livello, si assumono in prima persona la responsabilità di incidere sulla loro origine.

Come incidere? Nessun predicozzo da parte mia, ma sarebbe bene che le eventuali negative abitudini venissero modificare, che i propri comportamenti, se deleteri, si ispirassero maggiormente a quella sobrietà tanto invocare anche da papa Francesco e che, soprattutto, venissero ben ponderate anche le proprie azioni nel contesto della vita pubblica comprese le proprie scelte in ambito politico.




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C'era una volta...


 

C’era una volta… No, non si tratta dell’incipit di una favola per bimbi… Quello che qui si racconta non è una fantasiosa fiaba a lieto fine e nemmeno una antica leggenda ambientata ai piedi del Castello di San Michele… qui si racconta di eventi davvero accaduti... in particolare qui si racconta di come si sia intervenuti trasfigurando un sito da me (e non solo) assai amato. Si parla quindi di veri accadimenti, si parla di fatti concreti... di come ciò che c’era una volta sia stato, via via, in pochissimo tempo mutato nella sua destinazione d’uso, decisamente alterato nella sua sembianza.


La località di cui si racconta è quella della “Bacheta” , un’ampia striscia di terreno che si allunga dalla periferia di Ossana quasi a picco sul torrente Vermigliana, in alto sopra l’abitato di Fucine. Fino ad alcuni anni fa questo sito era attraversato per la sua intera lunghezza da una stretta stradina, il “sentiero del Sant” (così io l’ho sempre chiamata), una stradina che ora è stato allargata e ben asfaltata ricavandone il tratto iniziale della pista ciclabile che sale a Vermiglio (e che in futuro dovrebbe raggiungere il Passo del Tonale)

La “Bacheta” era una località in via di naturale imboschimento, di naturalizzazione spontanea... Ricordo che la zona a cavallo dei decenni 50’- 60’ del secolo scorso, era ancora in piccola parte coltivata. Qualche raro campo di patate ma soprattutto dei ripidi lembi di prato falciabile, il tutto nell’ambito di un’economia rurale di sola sussistenza giunta ormai agli sgoccioli. Con il sopraggiungere del benessere il sito è stato totalmente abbandonato e a poco a poco si è inselvatichito… Sono attecchiti in grande numero i noccioli ma anche i pioppi tremuli, qualche acero, qualche betulla, ontano e sorbo degli uccellatori... e al limitare del bosco, qualche larice e numerosi abeti rossi; alcune conifere già presenti si sono fatte imponenti, davvero maestose... Percorrere i vari tratti della stretta stradina del Sant, inizialmente nell’ombra oscura delle conifere, più avanti nella luce radente del sole al tramonto sprofondati in un tunnel di fronde luccicanti (dove a fine estate scoiattoli e ghiandaie erano di casa), era diventato, fino a pochissimi anni fa, un salutare e coinvolgente svago per i valligiani e soprattutto per molti turisti… ora purtroppo non lo è più, almeno non lo è come lo era allora...


..ma ora non c’è più.

Si è fatta pulizia. Tecnici ed operai del Servizio forestale della Provincia, ben forniti di motoseghe, trattori, autocarri e macchine operatrici di diversa tipologia e potenza, hanno lavorato alacremente per più mesi durante due successive stagioni estive per abbattere la boscaglia ripulendo totalmente l’intera zona da alberi d’alto fusto, dal ceduo e dai cespugli, quelli che furono prati, pascoli e campi coltivati e che abbandonati durante gli ultimi decenni si erano fittamente rimboschiti. Hanno eliminato le ceppaie e le radici ma anche massi e macigni, hanno spianato e livellato il terreno, allargato stradine e i sentieri, restaurato e ricostruito alcuni muretti a secco e infine seminato il tutto a prato… Un’impresa non da poco e sicuramente anche parecchio costosa.

Quindi, come in altre zone della valle, anche a Ossana, nei pressi del castello di S. Michele, si è voluto ripristinare quell’antico paesaggio rurale che il progresso aveva annullato. Una modernità che si era ben poco interessata all’agricoltura di montagna, all’incentivazione di una innovativa alpicoltura, rivolta com’era (e come è), all’incentivazione di un’economia e quindi di attività imprenditoriali legate, quasi esclusivamente, al turismo, ad un turismo in buona parte povero, un turismo di massa legato alle tendenze del momento.

Ma ne è valsa la pena?

Se è vero che il taglio del bosco ha dischiuso il panorama sulla valle di Peio, sulle sue alte cime che la coronano, e soprattutto sul bel castello di Ossana prima completamente celato dalla vegetazione (permettendomi tra l’altro di fotografarlo da punti di vista finora impossibili), è pure vero che se prima della drastica deforestazione il camminare sul viottolo del Sant era decisamente gradevole, era una piacevole passeggiata nell’ombra del bosco, con il ripristino del paesaggio rurale la situazione è decisamente cambiata. Dalla primavera all’autunno si avanzava sotto il sole cocente tra terre artificialmente inerbite, prive d’alberi, di bosco e di sottobosco, di un sia pur minimo interesse naturalistico.

Ma poi per quale ragione abbattere un bosco? Un bosco distante dalle case e che quindi non dava alcun fastidio? Per recuperare alla coltivazione delle superfici produttive abbandonate da decenni? Ma quali superfici produttive… solo prati magri e ripidi pascoli di limitata estensione. Per movimentare un panorama fattosi troppo uniforme con l’espansione della boscaglia? Non direi proprio visto il risultato (apertura del panorama sul castello esclusa). Solo per questi motivi si è distrutta una piccola foresta in formazione, un seppure minuscolo polmone verde in grado comunque di incamerare CO2 seppur in una infinitesima proporzione? Se l’apporto di quel bosco alla mitigazione del cambiamento climatico era sostanzialmente nullo non lo era comunque sul piano simbolico (o se vogliamo... educativo). Non è certamente un bell’esempio da mostrare ai bimbi che partecipano alla festa degli alberi e che vengono educati al rispetto per la natura e resi consapevoli rispetto all’importanza del bosco nella lotta al riscaldamento globale. A distruggere i boschi già ci pensano le tempeste di vento e la pullulazione del bostrico (figlie del clima che muta per cause antropiche)… non è il caso di aggiungervi altre distruzioni soprattutto se ben poco motivate. Di fronte a questo intervento non si può quindi che rimanere perplessi, disorientati come lo è stata buona parte della popolazione (locale e non) che non ha compreso le ragioni di un’operazione molto costosa e per molti versi ambientalmente e pure paesaggisticamente ben poco giustificabile.



Invece ora c’è...

Ma non finisce qui. Oltre ad aver fatto pulizia, ad aver ripristinato l’antico paesaggio rurale, il viottolo della “Bacheta” è stato convertito in pista ciclopedonale, o meglio, sostanzialmente, in pista ciclabile al servizio di un turismo sempre più intraprendente nel profittare e soprattutto promuovere le mode, le tendenze del momento. L’attesa e ben predisposta  ciliegina su di una torta già ben servita...

Un lungo e lento lavorio ha, a poco a poco, trasformato una antica mulattiera in un’ampia strada, protetta a monte e sostenuta a valle da muri a secco ma anche in calcestruzzo armato (artificiosamente mascherato da pietre a mo’ di muro a secco). Un lavorio che si è da poco sostanzialmente concluso con l’asfaltatura dell’intero tracciato, con la posa di uno spesso strato bituminoso che si estende ben oltre il “sentiero del Sant” raggiungendo i laghetti di San Leonardo di Vermiglio. Ora manca solo il fiore all’occhiello a cui comunque si sta già lavorando: mancano le staccionate a protezione dei ciclisti nei punti più esposti e manca il dovuto ultimo tocco di colore: manca la segnaletica stradale orizzontale con i suoi contrasti cromatici, manca il bianco e il giallo delle sue linee e dei suoi geroglifici tracciati sul nero del manto stradale. Manca quest’ultimo tocco per completare definitivamente la decorazione dell’alpestre paesaggio.

Questo è ciò che ora c’è in località “Bacheta”. Un serpenteggiante nastro nero, bollente in estate, inquietante, inquinante e costoso, su cui si cammina male e che, e questo è ciò che più pesa, non contribuisce sicuramente con il suo innaturale “cittadino” apporto a migliorare il paesaggio montano ed in particolare ad abbellire il panorama che è stato da poco aperto sul Castello di San Michele




Che dire?

A questo punto mi chiedo (e chiedo pure a chi mi legge) se quel nero manto di asfalto fosse davvero indispensabile: non ci si poteva limitare ad aprire una pista per amanti della bici, più stretta, meno impattante, più adatta ad un contesto montano, e soprattutto non asfaltata, con un piano stradale sterrato, ben compatto, stabilizzato e durevole negli anni?




Vedi in Google Foto cosa c’è ora 


Ricordando Bartolomeo Bezzi a cento anni dalla morte

 

Cento anni sono trascorsi dalla morte di Bartolomeo Bezzi, il più grande pittore trentino dell’Ottocento, dopo l’incomparabile Segantini, e uno dei principali promotori dell’Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia poi concretizzatasi nella Biennale.


Cento anni sono passati… ed è una anniversario che l’intera Val di Sole e in particolare il suo paese natale, Fucine di Ossana, non possono sicuramente scordarsi di celebrare.


La casa natale di Bartolomeo Bezzi a Fucine di Ossana

Di questo discorrevo, qualche tempo fa, con una mia amica... Si discorreva e soprattutto si auspicava…


Castel Caldes

Sono trascorse alcune settimane ed ecco che, proprio in questi giorni, sono venuto a conoscenza che al celebre artista verrà reso omaggio, qui, nella sua terra natale, con una mostra allestita nel castello di Caldes, una mostra commemorativa che sarà aperta al pubblico il 16 giugno.


A questo punto sono certo che a questo primo importante evento altri ne seguiranno, non solo nei principali centri del Trentino ma anche nel piccolo paese solandro dove Bartolomeo nacque nel lontano 1851.


Cataloghi delle mostre da me visitate: 1999 - Palazzo assessorile a Cles e 2003 - “Il fascino della natura” Palazzo Geremia a Trento. (Non ho il catalogo dell’esposizione dell'estate 1962 a Malè: avevo 14 anni e ricordo che la visitai con mio padre)

Da parte mia solo una semplice rievocazione: una personale rivisitazione di alcuni testi in mio possesso... e questo scritto, questo post, dopo quello, “La casa natale di Bartolomeo Bezzi"pubblicato nel 2015. Post a cui avevo allegato le immagini di alcuni quadri riguardanti panoramiche e scorci della Val di Sole. Riproduzioni fotografiche in gran parte riprese dai cataloghi di due mostre, da me visitate alcuni anni fa, riproduzioni di pitture e disegni solandri che ho pensato di aggiungere pure qui.  




Clicca su "Google Foto" per guardare alcune pitture e disegni della Val di Sole 

Fiori di primavera... girovagando nei prati, nei pascoli e nelle macchie selvose...

 

...tra la fine di marzo e la metà di maggio.



Alla fine di marzo e all'inizio di aprile in Val di Sole la neve copre ancora le cime ma sul fondovalle c'è aria di primavera. Lo annunciano i primi fiori che qua e là compaiono nel pallido verde dei prati, lo annunciano i fiori che sbucano nelle radure più aperte e lungo i margini più soleggiati delle abetaie.


Allo squagliarsi della neve sono spuntati, numerosissimi, i crochi (Crocus vernus). Le praterie si sono fittamente coperte di estesi tappeti bianchi screziati di viola mentre nei punti più soleggiati si sono colorate del giallo pallido talvolta venato di rosa delle primule (Primula vulgaris) e, a seguire, nelle zone più fertili, della candida tinta appena bollata d'arancio delle piccole pratoline (Bellis perennis).



Nel bosco il nocciolo (Corylus avellana) è fiorito da tempo e gli ultimi amenti, di cui si è nutrito il capriolo durante l'inverno, si staccano dai rami cadendo al suolo tra le foglie marcescenti. Il salicone (Salix caprea) è invece in piena fioritura: è l'esplosione di colore dei gattici che, di giorno in giorno, dal grigio passano al giallo, ravvivando la boscaglia a ceduo ancora spoglia.


Sul terreno, tra i rametti, il fogliame e gli strobili in decomposizione, dominano con il loro intenso colore blu-violetto i fiori dell'anemone (Anemone hepatica) e i più rari grappoli fioriferi della polmonaria (Pulmonaria officinalis).



Sul suolo calcareo, al primo sole di fine inverno, le chiazze di erica (Erica carnea) si sono subito sostituite all'ultima neve colorando il bordo della pineta di un roseo continuo e intenso mentre il terreno minerale, lungo le sponde dei piccoli rivi e dei torrentelli, è qua e là macchiato dal giallo intenso del farfaro (Tussilago farfaro) e nelle zone più umide dalle bianche infiorescenze del rigoglioso farfaraccio (Petasites albus).



In quota poi, allo squagliarsi della neve sui pascoli alti e meglio esposti, fiorisce il candido anemone primaverile (pulsatilla vernalis), che tra i tanti fiori primaverili è il mio preferito.



Questi i primi fiori che, allo scomparire della neve, annunciano il ritorno della bella stagione sul terreno umido e nudo... Ma poi, con il trascorrere dei giorni, la primavera avanza rapidamente, i prati rinverdiscono in fretta facendosi sempre più lussureggianti...

Ed eccoli i prati di fondovalle, brillanti, ormai verdissimi ma punteggiati da una grande varietà di colori, colori intensi che riscaldano il cuore dopo il freddo, lungo e monotono inverno.



Sono gli infiniti colori dei fiori spuntati alla fine del mese di aprile e durante il mese di maggio. Sono i vistosi gialli del dente di leone (Taraxacum vulgare) e i gialli più delicati delle primule odorose (Primula veris), l'azzurro del non-ti-scordar-di-me (Myosotis arvensis), i colori e le forme stravaganti dei fiori dell'erba del cucco (Silene inflata)... i rossi, i viola e ancora i bianchi e i gialli dei tifogli, dei gerani, dei ranuncoli, delle campanule, delle viole e delle violette... e molti, molti altri colori, molti altri fiori... colori e fiori che però, purtroppo, sono destinati a durare ben poco.



Tra qualche settimana i fiori saranno falciati. Saranno falciati con il primo taglio dell'erba sul fondovalle... e inevitabilmente i fiori recisi perderanno il loro fresco aspetto, il loro fascino ma non il loro profumo che verrà donato al fieno e con il fieno al buon latte, al burro e ai formaggi della valle. 



I fiori del sottobosco dureranno più a lungo, sfioriranno naturalmente con l'impollinazione e il trascorrere dei giorni. Così sarà per i numerosissimi fiori della fragola (Fragaria vesca), dell'acetosella (Oxalis acetosella), delle clematidi, delle primule, viole e di chissà di quante altre piante più o meno erbacee.



Senza considerare gli stupendi e vistosi fiori dei cespugli e degli alberi del bosco: i gialli fiori del crespino (Berberis vulgaris), i bianchi fiori del biancospino (Crataegus oxyacantha), del prugnolo (Prunus spinosa), del pallone di maggio (Viburnum opulus), del sambuco (Sambuca nigra), del sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia).... e soprattutto i magici fiori dei grandi ciliegi selvatici (Prunus avium) che hanno colonizzato in gran numero l'erto versante soleggiato della valle con i suoi campi terrazzati un tempo intensamente coltivati e oggi quasi totalmente abbandonati.



Ed è soprattutto su quei pendi che la primavera esplode, durante il mese di maggio, con i suoi fiori ma soprattutto con la gamma infinita di verdi pastello, morbidi e tenui delle foglie appena nate. Poi con il sopraggiungere della stagione calda, con l'arrivo del mese di giugno, il verde delle foglie ormai adulte tenderà ad uniformarsi appiattendosi in una anonima e omogenea colorazione verde.



Solo l'arrivo dell'autunno con le sue policrome tinte calde frantumerà nuovamente la monotona colorazione del fogliame donando una rinnovata bellezza alle macchie selvose... una bellezza decisamente diversa dalla bellezza primaverile ma sicuramente con essa molto, ma veramente molto, competitiva.



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Primavera in Val Piana

 

Dopo i mesi invernali sono ritornato, ormai da alcune settimane, in Val di Sole... e oggi, alla fine d’aprile, ho raggiunto, partendo da Ossana, la Val Piana smanioso di poter nuovamente ammirare il suo alpestre paesaggio, impaziente di potermi perdermi nei suoi pascoli appena rinverditi e nei suoi policromi boschetti...



Sono arrivato quassù nel primo pomeriggio salendo per la scenografica scorciatoia del sinter dela lec e ora, all’altezza del capitello di S. Antonio, attraversata “la Fos” (rio Foce), raggiungo i “pradi alti” percorrendo per un breve tratto l’antica mulattiera del “Selvat”.



Quale migliore punto di partenza per questa mia passeggiata in Val Piana dei “pradi alti”? Da quassù, da questo piatto rilievo il panorama si apre sull’intera valle svelando il tortuoso tragitto del torrentello che l’attraversa, rivelando l’ampiezza delle superfici pianeggianti a pascolo e a bosco tutte interamente racchiuse da ripidi pendii, che, sul fondale, si dissolvono nelle pareti rocciose delle cime Caldura, Giner e Venezia ancora quasi totalmente innevate.




Un paesaggio ameno, rilassante, un ambiente che amo da sempre... quieto, silenzioso. Un luogo a cui mi legano tanti giovanili ricordi...

Uparadiso, soprattutto ora, in primavera, quando questa piccola valle non è invasa da turisti e valligiani. Più avanti, in estate, la sua silenziosa distesa verrà inesorabilmente occupata da una eccessiva, se pur più che comprensibile e legittima presenza umana che inevitabilmente finirà con l’infrangere la sua tranquillità, compromettendo uno degli aspetti che, ai miei occhi, la rendono  così seducente.




Avanzo lentamente percorrendo per intero i “prati alti” poi scendo sul fondovalle dove proseguo camminando sia sul pascolo che, a tratti, sulla strada bianca e da ultimo su di uno stretto sentierino che costeggia il rio fino ad inserirmi sulla mulattiera che porta alla cascata del “Sas Pisador”. Un percorso non programmato, suggerito solo da ciò che al momento mi attrae, dal desiderio di scoprire e di immortalare la bellezza della Val Piana da punti diversi, da diverse angolature.




Cosa mi attrae? Mi attrae la vista delle cime ben illuminate, nitide e candide di neve così cromaticamente contrapposte all’ampio fondovalle in piena ripresa vegetativa. Mi attrae il verde intenso e brillante delle chiome degli abeti rossi in netto contrasto con le ramaglie di larice o di ontano ancora prive di foglie e ricche solo di grigiastri licheni... mi attrae l’inconsueta forma di una isolata roccia rivestita di muschio bizzarramente emergente dal piatto pascolo di fondovalle… … Sul piano e sui verdi declivi a pascolo mi attraggono i fiori di fine aprile, illuminati dal sole prossimo al tramonto. Crochi, anemoni, primule, viole... che vale la pena di attardarsi a fotografare anche se la luce non è delle migliori.




Questo e altro è quello che mi attira spingendomi a continue deviazioni dal percorso canonico, dal tragitto più breve per arrivare al Sas Pisador, la meta ultima, la più lontana, di questa mia primaverile uscita.

Quindi è solo dopo un lungo girovagare che raggiungo il Sas Pisador: un angolo nascosto della Val Piana particolarmente suggestivo, una cascatella sempre bella da vedere anche se ora, al tramonto, la zona è oscura, immersa nell’ombra. Una delusione accentuata anche dal fatto che la quantità d’acqua che precipita dai ripidi pendii della Colem del Dos è veramente poca a causa della siccità che si protrae ormai da molti mesi.




Lasciato alle spalle il “Sas Pisador” raggiungo la Malga di Val Piana percorrendo un breve sentierino pianeggiante e subito dopo, abbandonate le distese erbose più prossime alla malga, mi dirigo in basso ritornando sui miei passi... Percorro a ritroso la Val Piana seguendo il corso del torrente immerso nella rada macchia di conifere che lo costeggia sulla sponda sinistra... perdendomi nel verde, in una lunga distesa di verde tenero, una distesa di muschi e di mille virgulti appena spuntati ai piedi degli abeti…

La primavera ormai procede al galoppo anche a queste quote, anche nel bosco, anche quassù, in Val Piana... E’ un ritorno alla vita...

Dopo il lungo inverno trascorso lontano, dopo la forzata inattività, mi sembra veramente di rinascere…...



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