Percorrendo una vecchia stradina... tra Celledizzo e Celentino








Una tranquilla passeggiata di fine agosto, un'andata e ritorno sul versante della Val di Pejo che guarda a ponente tra i paesi di Celledizzo e Celentino. Una scarpinate solitaria calcando un comodo e ben tenuto viottolo, una strada poderale il cui tracciato probabilmente ricalca i primitivi percorsi, i vecchi sentieri e le mulattiere che collegavano i villaggi della valle, i numerosi nuclei abitati dalle origini incerte, dalle origini che si perdono nel tempo...



Erano insediamenti fino ad un tempo non lontanissimo densamente abitati da una popolazione che da sempre viveva quasi esclusivamente di una agricoltura di sussistenza, coltivava ogni appezzamento di terreno, anche il più piccolo lembo di terra, ricavato disboscando e terrazzando i pendii della montagna. Quei campi, quei fazzoletti di terra  rubati ai versanti della valle, oggi non esistono più. Sono scomparsi inghiottiti dalla boscaglia che ha avuto il sopravvento riconquistando in pochi anni ciò che l'uomo le aveva stappato con immense fatiche nel corso dei secoli.




Oggi si sfruttano solamente i terreni più comodi, si utilizzano solo quei prati falciabili che si estendono sulle zone più pianeggianti o poco ripide, comunque sempre lavorabili con l'ausilio di trattori o di altri moderni congegni meccanici... Quindi in Val di Pejo come in tutta la media e alta Val di Sole si produce solo fieno, foraggio destinato soprattutto ai pochi ma grandi e moderni allevamenti bovini sparsi un po' ovunque.





Ed è questo ambiente, radicalmente mutato rispetto ai ricordi dei miei verdi anni, che osservo camminando tra Celledizzo e Celentino: solo monotone distese di prati che rivestono il fondovalle e le coste meno erte... e dove il fianco del monte si fa ripido solo boscaglie di latifoglie di recente formazione che sconfinano nelle scure foreste di conifere che coprono i monti.




L’alternarsi pittoresco dei prati, dei frutteti, dei seminativi e degli orti sul fondovalle e sui versanti più solatii, il rosso e l’azzurro del papavero e del fiordaliso nei campi dorati, il volo dei maggiolini nelle serate primaverili e delle lucciole nelle buie notti estive, sono solo lontani ricordi... Il paesaggio si è decisamente trasformato, semplificato: solo prati e bosco. Distese a prato uniformemente verdi e boschi invadenti, boschi che occupano gli incolti, che riconquistano le superfici che nel corso dei millenni le erano state sottratte.





Vedo solo alcuni piccoli orti nei pressi dei paesi e qualche rarissimo campo ritagliato all'interno dei prati... campo di patate per il solo fabbisogno familiare. E pensare che un tempo il paese di Celledizzo era rinomato per l'abbondanza e l'ottima qualità della sua produzione di patate... così almeno raccontava mio padre che nei volti di Celledizzo si recava a fare scorta di quei bei tuberi per l'inverno.




E poi... sparsi qua e là sui versanti della valle, vedo alcuni masi ancora in piedi, gli ultimi, superstiti rustici edifici che fino a pochi decenni fa erano adibiti, in buona compagnia, a fienile e a stalla temporanea e che oggi sono in attesa d'essere alienarti, consolidati, ristrutturati e convertiti, come già avvenuto per la gran parte dei loro simili, in seconde case per i brevi soggiorni di quei turisti che prediligono la pace delle zone aperte al caos ferragostano dei centri abitati.





Lungo il percorso, appena a lato della stradina, ne incontro due di rustici masi. Due masi intatti, non ancora convertiti alle nuove esigenze dell'economia turistica. Uno, in particolare, è ancora utilizzato, fa infatti parte di un'azienda agricola ancora attiva.






Nei suoi dintorni pascolano e ruminano alcuni giovani bovini e nel recinto addossato all'edificio, a mo' di improvvisato pollaio, razzolano tranquille delle galline ovaiole, delle faraone, polli, e anatre... sorvegliate da un bel cane...






E' una vista inconsueta, quasi sorprendente; ormai capita raramente di poter vedere delle galline allevate all'aperto come si faceva un tempo...





Nei pressi di Celentino trovo un grande crocefisso ligneo e un capitello che sovrasta la stradina. Sono i segni del sacro, gli emblemi di una fede semplice che, in passato, tanto contribuì a sostenere le popolazioni locali nella loro quotidiana battaglia per la sopravvivenza e che ancora oggi aiuta molti credenti.




Quassù, sempre nei pressi di Celentino, rinvengo anche l'imbocco dell'unica miniera di ferro del versante sinistro della Val di Pejo. Tutte le altre numerosissime gallerie si trovano sul versante opposto, il versante di Comasine. E' questa la miniera denominata di San Cesare che fu dismessa nel 1968 e che oggi è segnalata solo da un vecchio cartellone quasi illeggibile (collocato chissà quando dall'Associazione Linum).




La località è totalmente abbandonata, l'ingresso della miniera è invisibile avvolto com'è dalla vegetazione infestante. Peccato... un'ennesima prova di come troppo spesso ai nostri amministratori e governanti in generale la salvaguardia e il recupero del patrimonio storico, culturale e artistico locale poco interessi impegnati come sono a portare a termine interventi di altra natura, finalizzati soprattutto all'incentivazione del turismo, un turismo stagionale, poco qualificato, di massa...



Ma bando ai cattivi pensieri! Al cospetto del panorama sulla Cima Boai e sulle vette del gruppo Ortles-Cevedale non posso non deliziarmi di tanta bellezza ma (purtroppo c'è sempre un ma) di fronte alle sempre più estese boscaglie che ammantano la valle, alle superfici a prato sempre più ridotte, alla totale assenza di campi coltivati, davanti alla dilatazione, alquanto disordinata, dei centri abitati, non posso non pensare alle conseguenze che la mutazione economica degli ultimi decenni ha comportato per la nostra valle.


Ed eccomi quindi a riflettere su come il “progresso” sia riuscito in poco tempo a cambiare radicalmente la fisionomia secolare della valle. Su come le luci abbacinanti della facile corsa al benessere abbiano talvolta condotto a scelte di “sviluppo” non sempre sufficientemente ponderate.
Sì perché la maggiore prosperità dei “tempi nuovi” ha comportato un generale degrado dell'ambiente connesso all'abbandono delle tradizionali pratiche agricole (sempre attente alla cura e manutenzione del territorio) e, soprattutto in alcune zone, un degrado connesso ad uno scandaloso consumo di suolo, ad un decadimento paesaggistico e naturalistico a favore di un turismo troppo invadente, troppo legato alle mode del momento.

Nostalgia per un mondo che non esiste più? Direi proprio di no… Impensabile, assurdo un ritorno ai “vecchi tempi”... Però... ancora un'ultima considerazione, prima del mio rientro. Un tempo, tutto sommato non lontanissimo, gli abitanti della valle riuscivano a campare sfruttando, seppure all'osso, solo il loro, unicamente il loro, patrimonio. Un patrimonio fatto di terre coltivabili povere ma che comunque, di anno in anno, davano il necessario sostentamento. La valle produceva da sola, manteneva i valligiani da sola con le proprie seppur misere risorse, non dipendeva, se non in minima parte, dagli accadimenti esterni, da ciò che succedeva al di fuori dei propri confini.  Era un'economia statica, solo contadina, di pura sussistenza ma in compenso era decisamente stabile.




L'odierna economia, sostanzialmente a sola trazione turistica, è sicuramente molto più ricca ma è inevitabilmente legata agli accadimenti esterni, a ciò che succede al di fuori del proprio territorio e quindi è probabilmente più fragile. Potrebbe bastare una congiuntura economica negativa, o semplicemente il mutare delle mode a metterla in crisi decimando l'afflusso dei turisti. Il benessere di una intera valle potrebbe venire compromesso dalla mancanza di alternative produttive.




Senza dimenticare che il il futuro della stagione turistica invernale (che si è voluta legare, quasi esclusivamente, alla pratica dello sci) è nelle mani di un cambiamento climatico sempre più allarmante. Forse, a mio giudizio, un'economia meno unidirezionale, più diversificata, che incentivi tutti i settori produttivi e non guardi solo a quello turistico potrebbe riservare un futuro economicamente più sicuro.




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Belle le vette del Gruppo Ortles-Cevedale... Dalla stradina si osservano benissimo le cime del Taviela e del Vioz, cime che superano abbondantemente i 3600 m di altitudine. Sovrastano l'abitato di Pejo Paese con lo storico Dosso di san Rocco. Guardando attentamente si individuano anche gli impianti di risalita realizzati in questi ultimi anni: la funivia Pejo 3000 e la seggiovia Seroden con relativa pista di discesa. Ma questo, a parer mio, non è uno spettacolo molto edificante visto che queste strutture sono state realizzate in pieno Parco Nazionale dello Stelvio. Di funi e tralicci il bel Parco ne aveva già a sufficienza. Sembra quasi che le aree naturalisticamente protette della nostra provincia stiano rinunciando a svolgere il loro ruolo istituzionale orientandosi verso obiettivi di altra natura, obiettivi di pura promozione turistica (quasi fossero specchietti per le allodole, al servizio delle Aziende di Promozione Turistica...  delle loro succursali). Sono lontani i tempi e non intendo cronologicamente, in cui la nostra Provincia divenne un modello, un esempio di gestione ambientale per l'intero Paese. Erano i tempi di Walter Micheli che a cavallo tra gli anni '80 e '90 riuscì ad ottenere e consolidare notevoli risultati nella valorizzazione e protezione del nostro territorio. Purtroppo di quei tempi resta solo il ricordo... da allora le cose sono molto cambiate...


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